Al ROF l’Elisabetta citazionista secondo Livermore

Se si esclude il Demetrio e Polibio del suo debutto al ROF, nell’ormai lontano 2010 (là, semmai, lo spettacolo sfruttava il meccanismo del teatro nel teatro), al cospetto di Rossini in Pesaro Davide Livermore non ha mai rinunciato a una delle cifre caratteristiche delle sue regie (anche non rossiniane), ovvero il rapporto fra il dramma musicale e le immagini in movimento. Era accaduto per Ciro in Babilonia, anno 2012, costruito in dialogo con i kolossal “archeologici” dell’epoca del muto; per L’Italiana in Algeri (2013), basata su un immaginario a metà fra il glamour hollywoodiano e disegni da fumetto vero e proprio; per Il Turco in Italia (2016), realizzato come fantasioso e rutilante (e perciò fedele) omaggio a Federico Fellini. Nessuna sorpresa, dunque, che il regista torinese abbia deciso di adottare questo taglio anche per Elisabetta regina d’Inghilterra, la quinta produzione che firma per il festival, che debutterà ufficialmente mercoledì 11 agosto all’Arena Vitrifrigo (diretta come sempre su Radiotre) e che noi abbiamo visto, come di prammatica quest’anno, in occasione dell’anteprima.

In questo caso, peraltro, il rapporto con il cinema è decisamente meno diretto ma nettamente più pop, rispetto ai precedenti. Questa Elisabetta si potrebbe infatti definire “citazionistica”, e il riferimento evidente è a due produzioni recenti o recentissime: Il discorso del re e specialmente la popolare e controversa (fra i sudditi di sua Maestà) serie televisiva The Crown (prima stagione). Lo spettacolo, dunque, salta dal Cinquecento del personaggio originario alla metà del Novecento in cui sale sul trono l’attuale regnante, Elisabetta II. Resta la cornice bellica, che il libretto di Giovanni Schmidt colloca alla fine di un aspro conflitto con il regno di Scozia e che in questo caso deve inevitabilmente fare riferimento al secondo conflitto mondiale. E pazienza per l’anacronismo, visto che Elisabetta venne incoronata solo nel 1953 a guerra finita da un pezzo: del resto, Livermore in un’intervista ha rivendicato la “contaminazione storica” come elemento della sua libertà creativa. La stessa che lo induce a costruire la scena dell’Aria di sortita di Elisabetta come se la sovrana stesse tenendo un discorso radiofonico alla nazione in tempo di guerra, microfono di modernariato compreso. In realtà, quel celebre discorso fu pronunciato da Giorgio VI, padre della regina, e l’episodio è raccontato nel film di Tom Hooper che abbiamo citato.

Al netto di particolari che non sono così decisivi ma che probabilmente i “talebani” in lotta contro il teatro di regia nell’opera giudicheranno scandalosi, lo spettacolo offre un’ambientazione allo stesso tempo molto sofisticata ma troppo carica. Per realizzare quest’opera singolare, dramma per musica appartenente di fatto al genere semiserio “à sauvetage” carcerario, con i buoni che la scampano per il rotto della cuffia e il cattivo dannato quasi per caso, Livermore lascia infatti briglia sciolta a quello che ha definito il suo “team di pirati dei Caraibi della tecnologia”. La scelta si riassume però in una presenza pervasiva ed eccessiva del video design firmato D-Wok – peraltro effettivamente di alto livello tecnologico – che finisce per risultare ripetitivo oltre che spesso troppo “carico”, fra descrittivismo di maniera e vero e proprio kitsch. Certo, affascinano le soluzioni digitali che permettono di “amplificare” – se così si può dire – le già rilevanti idee scenografiche di Giò Forma, impeccabile di suo (con l’aiuto delle luci molto contrastate di Nicolas Bovey) nel mettere a fuoco in chiave alta borghesia sulla via del declino (tutti i mobili sono sghembi e sembrano sprofondare nel pavimento specchiato che li inghiotte) gli ambienti della corte inglese. Ma l’insistito apparato di nubi più o meno tempestose e fumi più o meno inquietanti e fiamme più o meno devastanti che seguono passo passo il dipanarsi della vicenda diventa rapidamente stucchevole. Né basta il ricorso a interessanti immagini d’epoca londinesi (Anni Cinquanta, chiaro, e in qualche caso periodo bellico) o le costruzioni in montaggio di eventi legati alla guerra aerea, con velivoli che puntano dritti sul pubblico da sopra la testa dei personaggi in scena, per andare oltre la sensazione che con metà degli effetti lo spettacolo – gratificato dai meravigliosi costumi in stile high society firmati da Gianluca Falaschi – sarebbe stato ugualmente intrigante, forse anche di più.

Del resto, la regia d’opera oggi viaggia lungo due coordinate principali, la sottrazione e l’addizione. Livermore predilige la seconda, e si assume il rischio di una certa quale “incontinenza”, il Moïse inaugurale del ROF firmato Pizzi ha certificato che può funzionare anche la prima. E il festival pesarese ha fatto il dover suo nel mettere a catalogo le tendenze dominanti oggi.

Iscritta di diritto nel registro delle rarità al ROF (un solo precedente, risalente al 2004), Elisabetta regina d’Inghilterra (Napoli, 1815) ha visto debuttare al festival pesarese il direttore Evelino Pidò, alla guida di un’Orchestra Sinfonica Nazional della Rai tirata a lucido. La sua è parsa una lettura un po’ a corrente alternata: ben rifinita dal punto di vista coloristico e di fraseggio, con sicura appropriatezza stilistica, nelle Arie e nei concertati di una partitura che notoriamente è quella di Rossini con il maggior numero di auto imprestiti (c’è solo un numero originale, le principali “fonti” sono le opere Aureliano in Palmira, Ciro in Babilonia e Sigismondo); assai meno convincente nella resa dei recitativi (sempre accompagnati: una delle novità decisive nella drammaturgia rossiniana), spesso spenti anche nelle scelte di tempo e nelle dinamiche, a coinvolgere in una certa quale genericità un po’ tutti i componenti del cast vocale.

Quest’ultimo presentava una distribuzione pur sempre di alto livello, ma non brillante come nelle altre due produzioni di quest’anno. Nel ruolo del titolo, Karine Deshaves si è proposta con energia e intensità espressiva non sempre corrispondenti al controllo nella zona acuta della tessitura, ma con notevole presenza scenica sulla linea dettata da Livermore. Al suo fianco, l’invano amato Leicester, Eroe dell’Aria in questo spettacolo, aveva la voce nitida e discretamente svettante del tenore Sergey Romanovsky, poco incline al calore sentimentale nei confronti della pur amata Matilde, ruolo nel quale risultava un po’ “compressa” la sontuosa voce di Salome Jicia, due anni fa sullo stesso palcoscenico Semiramide di assoluto livello. Voce non particolarmente ben timbrata e linea di canto a tratti faticosa ha palesato il tenore Barry Banks nella parte del “vilain” Norfolc, un cattivissimo capace di abiette doppiezze che Livermore “dipinge” ispirandosi a Churchill, sigaro incluso. Bene i comprimari Marta Pluda (Enrico) e Valentino Buzza (Guglielmo), equilibrato il coro del Teatro Ventidio Basso, istruito da Giovanni Farina.

Le repliche, dopo la prima di mercoledì, sono in calendario il 14, 17 e 21 agosto.

Cesare Galla
(8 agosto 2021)

La locandina

Direttore Evelino Pidò
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Costumi Gianluca Falaschi
Videodesign D-Wok
Luci Nicolas Bovey
Personaggi e interpreti:
Elisabetta Karine Deshayes
Leicester Sergey Romanovsky
Matilde Salome Jicia
Enrico Marta Pluda
Norfolc Barry Banks
Guglielmo Valentino Buzza
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del Coro Giovanni Farina

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