Alessandro Di Profio: «I Concerts d’Automne potrebbero essere altrove…?»

Il prossimo 8 ottobre si inaugurerà a Tours la sesta edizione dei Concerts d’Automne, che potrebbereo essere definiti la versione 2.0 di un festival viste le differenze – soprattutto per quel che riguarda le scelte di programmi e il rapporto con il territorio – che presentano rispetto ad altre istituzioni “tradizionali”. Ne parliamo con il Direttore Artistico Alessandro Di Profio.

  • Perché proprio Tours?

Per almeno tre ragioni. Perché Tours ha una lunga storia che la lega alla musica: qui due pionieri, Jean-Pierre Ouvrard e Jean-Michel Vaccaro, uno direttore di coro e d’orchestra e l’altro musicologo, cominciarono tra la fine degli anni 1970 e gli inizi 1980 a sperimentare nel campo della cosiddetta “musica antica”, tanto poi che intere generazioni si sono formate a Tours, tra cui il soprano Patricia Petibon. Perché in una Francia che pullula di festival, Tours non aveva ancora il suo: un vuoto inspiegabile per il pubblico. Perché la città è la “capitale” della Valle della Loira con i numerosi castelli – gioielli rinascimentali grandi e piccoli, noti e meno noti, tra cui ovviamente Chambord e Chenonceau –, che restano la seconda destinazione turistica in Francia dopo Parigi; e il tutto ad appena un’ora da Parigi, grazie alla linea dei treni superveloci, i TGV. Insomma, direi che la vera domanda sarebbe: “I Concerts d’automne potrebbero essere altrove…?”.

  • Dal 2016 – anno della prima edizione – i Concerts dautomne hanno visto un costante accrescimento di collaborazioni con pressoché tutte le realtà culturali e produttive della Touraine. Come si è andata costruendo questa unità di intenti?

Immaginare un festival oggi non ha più niente a che vedere con le esperienze storiche come Salisburgo o Aix. Un festival è un polmone che vive in connessione con un tessuto economico, artistico e sociale. Troppo spesso si vedono cattedrali nel deserto che non a caso si sgretolano rapidamente… Parlavo della storia musicale di questa città su cui mi sono appoggiato. E parallelamente, ho intrapreso collaborazioni con i principali attori culturali: il conservatorio e l’università ovviamente, l’Opéra, ma anche il Musée des beaux-arts, il centro di arte contemporanea Olivier Debré, la cineteca… E quest’anno, i Concerts d’automne vanno ancora oltre: abbiamo riunito già una ventina di organizzazioni – e il numero non fa che crescere – che lavorano nel settore sociale. Ho voluto lanciare il programma Tutti che va a cercare un pubblico che si autocensura, che pensa che la musica non lo riguardi: andiamo nelle prigioni, negli ospedali o ancora nei quartieri più periferici. La musica non è esclusivamente per i Soli

  • Barocco ma non solo nei programmi dei concerti, sempre pensati in unottica tuttaltro che convenzionale, il tutto secondo una scelta ben precisa di collocazione rispetto ad altri festival. Qual è la risposta del pubblico?

Quella dell’identità è uno dei primissimi problemi quando si crea un festival che deve essere facilmente identificabile dal pubblico con cui si costruisce un vero rapporto di fiducia e di complicità. Concerts d’automne è un festival di musica “storicamente informata”. L’espressione è ormai in voga in area anglosassone: “historically informed performance”. Noi siamo HIP! Ma appunto la nuova generazione HIP non è più segregata come quella di una volta. Quando studiavo in conservatorio, si diceva che i clavicembalisti fossero pianisti falliti… Per fortuna, siamo lontani da quei tempi. Oggi in Francia un bravissimo clavicembalista, come Jean Rondeau, è anche pianista jazz e quando esegue al clavicembalo la Ciaccona di Bach si serve della versione di Brahms. Impensabile solo una ventina di anni fa. È questo spirito di libertà che ho voluto far respirare al pubblico che francamente è entusiasta. Non a caso, quest’anno cominciamo con un adattamento di María de Buenos Aires, l’opera-tango di Piazzolla, riscritta con inserzioni prese in prestito a Bach e Vivaldi. Un lavoro di riscrittura orchestrato da Andrés Gabetta, che questa musica l’ha nel sangue, con la complicità di due compositori italiani: Luca Salvadori e Roberto Molinelli. E ritroveremo per l’occasione il travolgente Mario Stefano Petrodarchi che affiancherà la María di Ana Karina Rossi. Chi associa la musica barocca ai pizzi e alle parrucche sarà certo disorientato dal tango sanguigno di Buenos Aires… Capisco che possa essere una bella sorpresa”.

  • Lo scorso anno, in piena emergenza pandemica, il Festival ha scelto di non fermarsi e la sfida è stata vinta. Quanto è stata complessa la realizzazione del 2020?

Una follia farlo, ma poi i sorrisi degli artisti e del pubblico fanno dimenticare tutti gli sforzi. Ho viaggiato nel buio fino all’ultimo istante. Ogni giorno, arrivavano notizie nuove che contraddicevano quelle della vigilia. Ho cominciato con il consultarmi con i musicisti: tutti volevano a tutti i costi tornare in scena e per questo erano pronti a sacrifici durissimi, perfino a dimezzare i cachet. Cosa che ho rifiutato drasticamente: tutti sono stati pagati secondo le tariffe concordate prima dello scoppio della pandemia. Invece, sono stato costretto a rivedere i programmi e gli effettivi. È così che un programma tutto Mozart con più di quaranta orchestrali sul palco e uno dei più grandi contro-tenori del momento è diventato un recital consacrato ai due concerti di Chopin nella trascrizione per quintetto con un pianoforte Pleyel d’epoca. Ci è voluta un’inesauribile capacità di adattamento. Sembra che gli italiani siano bravi per questo…

  • Questanno si riparte alla grande. Ci racconti il programma e il filo conduttore lungo il quale si articola?

Il festival si è avvalso nel passato del sostegno di Carlo Majer che era un mio carissimo amico. Figura storica della direzione artistica, Carlo mi ha molto aiuto in questo progetto di cui era anche un fedele mecenate grazie alla sua impresa Rheavendors. E quando purtroppo se n’è andato, mi è parso doveroso continuare a rendergli omaggio: è per questo che è nata l’idea di un filone dedicato alla musica dell’America latina sempre avvicinata con un gusto per il cross-over. Perché Carlo, una delle persone più colte e curiose che abbia mai incontrato, non solo amava Cuba, ma era un pozzo infinito di scoperte: con lui imparavo sempre e imparavo soprattutto ad accostare quello che in apparenza non era fatto per essere messo insieme. Le playlist di Carlo erano vere caverne di Ali Babà.  Il progetto di María prolunga questo filone latino. Così come la curiosità del giovane direttore Simon-Pierre Bestion lo spinge a fare incontrare i vespri, noti come Veglia per tutta la notte, di Rachmaninov con il canto di rito bizantino. Poi, torna l’ensemble di Praga Collegium 1704 che eseguirà, per la prima volta in Francia, il Requiem di Mozart. Mentre I gemelli, diretti dal cileno Emiliano Gonzalez Toro che è anche tenore, porteranno in scena L’Orfeo di Monteverdi in una versione che ne esalta la matrice rinascimentale, fondata su un’orchestra lussureggiante. Scopriremo inoltre pagine quasi sconosciute, come la raccolta Abendlied di Haydn che Consonance ha appena inciso, e un raffinatissimo programma costruito da Joël Suhubiette, direttore dell’Ensemble Jacques Moderne, intorno a Etienne Moulinié, André Campra e Jean Gilles. Ritengo che sia il compito di un festival di assicurare una grande varietà.

  • Come vedi il futuro della musica dal vivo da qui a qualche anno?

“In Italia, mi pare che il pubblico abbia un po’ troppi capelli bianchi… Questo mi preoccupa. So bene che ci sono alcune istituzioni che fanno miracoli tentando di creare gli spettatori di domani, ma servirebbe un lavoro profondo che dovrebbe cominciare da almeno due ministeri, quello dei Beni culturali e dell’Istruzione. Non mi sembra però che sia la priorità. In Francia, trovo il pubblico globalmente più giovane e soprattutto più eterogeneo. Le ragioni per essere ottimisti sicuramente non mancano, ma certo ci saranno sfide importanti, tanto generazionali quanto tecnologiche. Il futuro, insomma, lo vedo con tanto, ma tanto lavoro da fare in prospettiva”.

Alessandro Cammarano

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