Il libro: Alberto Mattioli Il loggionista impenitente

Chi ha paura del loggionista? Tutti, in fondo. Perché il loggionista – quello vero – non perdona, non dimentica e, peggio ancora, ascolta. Con orecchio spesso sopraffino, memoria da elefante, lingua che non fa sconti e soprattutto una buona dose di partigianeria da Curva Sud. Ma se quel loggionista si chiama Alberto Mattioli, l’ironia salva tutto: anche il repertorio.

In Il loggionista impenitente (Garzanti, 368 pp., €19,00) , Mattioli mette in scena non solo un se stesso moltiplicato per duemila – che sono, per difetto, le serate d’opera da lui frequentate –, ma un’intera antropologia teatrale che va in scena ogni sera non sul palcoscenico, ma in platea.
I fanatici del “si bemolle, i talebani del Belcanto  “quello della Pasta e di Nozzari”, gli evangelisti delle regie mutande-e-muri-spogli: tutti rappresentati, tutti meravigliosamente riconoscibili.

Il libro è un prontuario di memorie, polemiche, slanci e perfidie, ma sempre calibrate con una penna che sa essere rapida e affilata, mai gratuita; “Faccio (anche) il critico d’opera, ma non lo sono”, scrive Mattioli: una dichiarazione d’intenti che spiega tutto.

La scrittura non è quella del recensore a contratto, ma quella di chi all’opera ci va per godere, non per giudicare. Eppure il giudizio arriva lo stesso, ma dal lato buono: quello dell’orecchio educato, della curiosità onnivora, dell’amore (vero, non da post).

Ci sono pagine irresistibili: il monumento semiserio a Cecilia Bartoli, “Santa Cecilia Nostra Sempre Divina”, è un capolavoro ; e poi ancora i capitoli dedicati ai grandi protagonisti della scena recente – Abbado, Domingo, Dessay, Muti, Netrebko–, scritti con una leggerezza che non rinuncia alla competenza. Non manca il sarcasmo sui registi “concettuali” (“un tempo si diceva che Mozart si rovesciasse nella tomba: oggi, poveretto, avrà imparato a farlo in tempo reale”), sulle mode del gender casting (“va bene tutto, ma se Cherubino è una donna e Susanna è un uomo e Figaro è un controtenore, la contessa con chi finisce a letto?”), e sulla malinconia degli ascolti d’antan.

Sotto la scorza divertita, però, c’è un gesto più serio di quanto sembri: Mattioli rivendica il punto di vista del pubblico esperto, quello che non si accontenta di “aver visto Turandot trecento volte” ma distingue un direttore da un concertatore, e si accorge se la seconda scena è saltata perché il soprano non reggeva. “Non si capisce una parola. Eppure di teatro musicale m’innamoro”: così si apre il libro, con una dichiarazione paradossale che è anche la più onesta delle verità. L’opera non si capisce, si ama. E si ascolta. Anzi: si riascolta.

Il risultato è una lettura irresistibile per chi ha una passione vera, e uno specchio (un po’ impietoso) per chi si crede loggionista e invece è solo abbonato. Nessuna nostalgia, nessun autocompiacimento, solo uno sguardo pieno di affetto e ironia su quel piccolo mondo che, da tre secoli, fa battere i cuori – e fischiare le gallerie.

Chi ha orecchio, intenda. E chi non ce l’ha, può sempre leggere Mattioli per capire cosa si è perso.

Alessandro Cammarano

Alberto Mattioli
Il loggionista impenitente
Garzanti
368 pagine, € 19,00

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