Marco Jacoviello: “Caro mio ben” e il melodramma oltre i confini
La traiettoria intellettuale di Marco Jacoviello si distingue per un costante attraversamento di confini: tra estetica e pedagogia, tra musicologia e pratica terapeutica, tra la drammaturgia operistica e i linguaggi dei media. Storico ed estetologo della musica, musicoterapeuta e docente, Jacoviello ha saputo leggere il melodramma non come oggetto chiuso in una tradizione, ma come dispositivo culturale in grado di interrogare società, storia e identità collettive. Dai notturni mozartiani indagati in “Al favor della notte…” (2015), alle metamorfosi audiovisive di Violetta e le altre (2021), fino al romanzo “Musica proibita” (2018) che intreccia memoria e persecuzioni, la sua scrittura ha sempre cercato le faglie in cui la musica si incontra con l’etica e con la vita. Il nuovo libro, “Caro mio ben”, in uscita nell’ottobre 2025, si annuncia come un ulteriore tassello di questo percorso di ricerca e di interpretazione.
- Nel volume in uscita a ottobre, “Caro mio ben”, quale linea di continuità o di rottura intende tracciare rispetto ai suoi precedenti studi sul melodramma e sulle intersezioni tra musica e altri linguaggi artistici?
L’idea iniziale, concepita durante la stesura di Le signore delle camelie per Morlacchi era affrontare le dinamiche che intercorrono oggi tra l’opera lirica e il pubblico anche quando il teatro come luogo scenico sembra esonerato. Cinema, televisione, media, cellulari in primis offrono da molto tempo un’idea del melodramma che non coincide più con le ragioni in cui è stato concepito. Si deve al Recitarcantando e alle prime realizzazioni sceniche dell’opera, infatti, la nascita di uno spazio funzionale alla messa in scena e all’accoglienza del pubblico. Senza lo spazio scenico, l’opera è altra cosa: lo schermo, il video, il tablet hanno modificato la percezione dell’opera lirica alterando i rapporti classici. il pubblico è cambiato, il tempo di ascolto si è ridotto enormemente, la pubblicità se ne è impadronita. L’opera viene così conosciuta dal grande pubblico mediale impoverita della componente drammaturgica che ne rappresenta l’essenza. L’opera è dramma.
In Caro mio ben, titolo che riferisce il valore affettivo che mi lega al grande melodramma, riprendo la storia dell’opera partendo dal fortunato 5 ottobre 1660 di Firenze, discuto e limiti di quell’operazione dal sapore politico; mi affianco in seguito a Benedetto Marcello che individua la prima grande crisi sociale del teatro operistico, pesco nell’Ottocento i titoli più rappresentativi del rapporto con il romanzo rivelatori e della risposta del pubblico, entro poi nella grande diffusione novecentesca con alcune “voci” verdiane di grande spessore intellettuale e mi soffermo sul divismo di Maria Callas con la voce di Camilla Cederna. Discuto l’inevitabile, e a mio avviso provvidenziale, apporto contemporaneo dell’innovazione teatrale, a cominciare da Visconti, Strehler e Brook per arrivare ai nuovi divi della regia lirica. Per ultimo discuto sul “destino”, invocato da tutti come premonizione di sciagura. Per me, lo vorrei sottolineare, il destino dell’opera si compie in ogni andata in scena, di sua natura ben augurante. Il destino all’opera si chiama epifania.
- Nella sua riflessione lei ha spesso evidenziato il valore simbolico e drammaturgico del melodramma. Quali categorie estetiche ritiene oggi più adeguate per interpretare il teatro d’opera al di là della tradizionale dialettica musica-parola?
L’opera è il miglior esempio della dialettica tra utopia e distopia. Della prima crediamo di saper tutto, da quando la proposta di Erasmo da Rotterdam ha agitato le menti e i cuori intellettuali concretizzandosi, accanto alla ritrovata Poetica di Aristotele, nel Recitarcantando. L’opera nasce come gemmazione dell’utopia umanistica e come tale si è riprodotta nel tempo mantenendo intonsa la sua patina di topos immaginato. Le trame operistiche hanno sempre un luogo che le accoglie, ma la musica confonde le acque. Il dramma inscritto nel libretto assume una nuova veste estetica, è melo-dramma. La parola non è più detta, è cantata. In questa prospettiva il luogo reale dell’azione si sbiadisce anche nelle più pregevoli ricostruzioni sceniche, al suo posto compare il luogo del cuore, quello segreto degli affetti più intimi, delle gioie e dei dolori che non può esser nominato. La Parigi di Violetta diventa in questo modo un pretesto per far affiorare dal profondo di ogni spettatore quel sentire sé stesso evocato precedentemente dall’emozione e da sempre riposto negli angoli più intimi, forse, dimenticato. L’utopia si realizza a tal punto che riesce anche a trasformarsi in cognizione di sé, in riconoscimento delle proprie passioni attraverso la proiezione sui personaggi che animano il dramma, come ha ben descritto Gustave Flaubert nei capitolo V di Madame Bovary. Quando ciò avviene, l’utopia si compie lietamente nella catarsi. Proprio questa dinamica è divenuta motore propulsore per la nascita cinquecentesca del melodramma in Italia.
Ma ci sono anche altri percorsi creativi che potremmo definire “al limite”, in cui il luogo scenico si smaterializza per volontà artistica in spazio accogliete non precostituito, anonimo, astratto, un “anti-luogo”. Se lo spazio viene sostituito dal tempo (come nella Traviata di Salisburgo) la rappresentazione non corre più sui binari dell’estetica classica, ma della fenomenologia. Nella proposta delle ultime generazioni dei registi, l’astrazione e la dislocazione impongono drammaticamente il capovolgimento delle credenziali con cui è nato il melodramma rivendicando per sé il principio anarchico dell’arte. Anche se i rischi sono evidenti, ad esempio la non comprensione del testo poetico che non corrisponde alla scena, come pure la non riconoscibilità della musica a tal punto che sembra stravolto il rapporto tra ciò che si vede e ciò che si ascolta, la censura non le si addice.
- Le sue indagini su La traviata al cinema e in televisione hanno aperto prospettive nuove sul rapporto tra melodramma e media. Quali dinamiche estetiche e culturali emergono dalla traduzione dell’opera nel linguaggio audiovisivo contemporaneo?
È inevitabile che nel cambio di linguaggio la natura di un’opera creativa non sia più la stessa. Infatti sappiamo bene che la pratica della parafrasi di una poesia richiesta ai miei tempi scolastici si è dimostrata un solenne tradimento della poesia stessa. La poesia è l’esaltazione della parola, un concentrato di senso che spariglia le carte degli analitici. Il rapporto è dettato dall’autore, non può annullarsi, è territorio del sacro.
Si dovrebbe avere, dunque, coscienza che si compie lo stesso delitto sull’opera lirica ogni qual volta la si deturpa con procedure a lei totalmente estranee. Ad esempio la più mostruosa è la macchina pubblicitaria, che abusa di Mozart e di Puccini con il solo scopo della propaganda commerciale. Questa attività mercificatoria è la morte dell’arte. Cosa diversa, a mio avviso legittima, è attribuire ad un brano operistico una capacità drammatica esclusiva. Philadelphia con “La mamma morta” cantata da Callas, oppure “Che soave zeffiretto” in Le ali della libertà sono strutture cinematografiche create in stretto rapporto con l’opera che viene in questo modo esaltata senza alcuna interferenza alla struttura cionematografica. Se si intende attrarre la visione in un punto fuori dallo schermo, come può essere il mistero, il puro senso, la bellezza, l’amore, la morte e così via, allora anche poche note giustapposte all’immagine realizzano questo obiettivo. Una voce, un motivo, un brano lirico al cinema è consentito per accrescere d’intensità la proiezione. Ma può diventare anche la condizione base di una scena oppure di un intero film, come Stregata dalla luna che è la migliore rilettura contemporanea, dalla parte di Musetta, di La bohème. D’altra parte all’opera, il parodosso sinestesico di “vedere con le orecchie e udire con gli occhi” è pratica comune.
- In “Musica proibita” lei ha affrontato il nodo tra musica e totalitarismi novecenteschi. Come valuta oggi la funzione della musica come veicolo di memoria storica e quale statuto critico assume in rapporto alla dimensione etica?
In gioventù ero convinto che la coscienza della Shoah avesse annientato le possibilità dell’azione bonificatrice dell’arte e della musica. In seguito, anche promosso ad altri lidi dal dialogo costante con i miei studenti liceali e universitari, ho cambiato opinione. C’è bisogno di musica anche nel supremo dolore. Ad insegnarcelo è l’antropologia per la quale il canto funebre rappresenta la prima esperienza musicale del gruppo umano. Le barriere della morte si superano solo e unicamente nel loro esorcismo. Alla musica chiediamo la consolazione di un’assenza. Ma anche la gioia di una presenza. La ninna-nanna è l’esempio più eloquente di questa dinamica psicologica che intercorre tra la musica e l’umanità. La cultura greca, nell’invenzione del teatro, aveva scoperto che la ricreazione di un piccolo mondo sul palcoscenico era il modello per affrontare, evidenziare e risolvere le dinamiche storiche e sociali. Ma il divertimento aveva in controluce un controsoggetto: l’etica del comportamento. Da quel momento Eros ha abbracciato Aretè, la virtù. L’estetica senza etica è vanità. Gli accademici fiorentini e romani, a fine Cinquecento, si pongono lo stesso problema nella rilettura filologica del trattato di Aristotele, La Poetica: a che serve il teatro, a quale funzione corrisponde, cosa si propone l’intervento della musica, perché il canto è di sua natura più efficace della parola stessa? Domande per le quali si sono escogitate infinite risposte, il cui nucleo, però, rimane inesaurito: in questo mondo in cui dominano la contraddizione e l’aporia, cosa ha insegnato la musica?
- Il suo lavoro coniuga estetica, pedagogia e musicoterapia. Quali elementi comuni individua tra l’ascolto analitico del repertorio operistico e la pratica terapeutica fondata sul suono?
Alla nascita siamo stati accolti da un caldo abbraccio, da un volto che ci ha persuaso di essere amati, da un ritmo cardiaco materno che ci ha rassicurato, da una voce che cantava la ninna nanna, abbiamo provato la dolcezza del latte. Siamo nati, nella migliore delle ipotesi, in uno speciale rapporto sinestesico, come se un piccolo melodramma si svolgesse per noi nei primi giorni di vita. Ecco, l’opera è anche questo, il sogno di essere stati amati senza condizione. La musicoterapia è una disciplina di confine tra le scienze sociali e quelle psicologiche e sanitarie. Si è consolidata con un inquadramento teoretico e uno pratico. Oggi si avvale delle scoperte delle Neuroscienze, per le quali l’ascolto musicale e la capacità di memorizzare insistono in aree contigue della corteccia cerebrale. D’altra parte il Mito stesso aveva indicato in Mnemosine la madre delle muse: la memoria stessa sarebbe dunque alla base dell’arte e della musica. L’esperienza musicale lo dimostra ampiamente. Ad esempio, il canto conserva sia la linea musicale che il testo poetico. Senza musica si farebbe fatica a ricordare quest’ultimo. La parola cantata, in questo caso, ha un valore conservativo in grado di contenere concetti, ricordi, testimonianze, fatti, persone che difficilmente sarebbero memorizzati. Altra cosa è lavorare sul suono. L’autismo, ad esempio, non si piega alla suggestione della bellezza, ma il suono provoca l’ascolto e può aprire un percorso di relazione. In musicoterapia non c’è ricerca estetizzante. Si lavora in équipe sovraintesa da un dirigente sanitario. Ci si convince sempre che siamo relazione perché proveniamo da una vibrazione. Quella sonora tra i gameti che dà origine alla fecondazione viene intesa come proprietà Iso.
- Alla luce delle trasformazioni tecnologiche e sociali, quale ruolo immagina per il melodramma nel XXI secolo: residuale e museale oppure capace di rigenerarsi come dispositivo critico ed estetico?
Le ultime realizzazioni sovraintese dall’alta tecnologia applicata all’opera mi hanno convinto che siamo di fronte ad un nuovo capitolo della messinscena. Ma la tekno-opera avrà un futuro unicamente se la coscienza critica del pubblico subirà una rivoluzione copernicana che tutt’ora langue. Con il rischio che la bellezza del melodramma divenga uno strumento di distrazione sui reali obiettivi nati quattrocento e passa anni fa.
Il teatro d’opera accoglie almeno tre generazioni di pubblico: quello che ha ascoltato direttamente i grandi interpreti, quello che li ha conosciuti dalle registrazioni, e quello più giovanile che lavora nel minimalismo visivo dei tablet rinunciando alla componente melo-drammaturgica. Ci vorrebbe uno sforzo delle istituzioni formative del nostro paese, liceo e università in testa, per garantire le competenze estetiche in grado di riconoscere il valore artistico del melodramma. Il Belcanto è Linguistica, non soltanto Estetica o tecnica espressiva. Però manca ancora un’area concettuale che ne definisca le proprietà intrinsecamente legate alla lingua italiana. Di modo che ai futuri docenti non viene richiesta una competenza adeguata. Gli slogan del “Made in Italy” sono soltanto specchietti delle allodole. L’impegno per una istruzione e una formazione più motivanti garantirebbe un futuro che, al momento, è solo dubbioso.
Alessandro Cammarano




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