Milano – Tamerlano, il trionfo dei (contro)tenori

Secondo appuntamento della mini stagione barocca in seno a quella (ufficiale) del Teatro alla Scala. Dopo il Trionfo del Tempo e del Disinganno del 2016, è la volta di un altro capolavoro händeliano, il Tamerlano, che in Italia dove si confonde il belcanto con il Volo, suona come una grande sfida.  L’attesa era tanta. Perché alla Scala quest’opera non si era mai vista, perché il regista Davide Livermoore è al suo debutto al Piermarini e perché tra i protagonisti c’è un certo Placido Domingo. A quanto pare un cocktail vincente, perché lo spettacolo funziona, la sala era piena ed è stato un trionfo.

Tre monarchi assetati di fama e gloria. Bajazet, imperatore ottomano spodestato, Andronico, passionale imperatore bizantino alleato a Tamerlano, e Tamerlano crudele re dei Tartari (qui popolo ideale come quel Deserto di Dino Buzzati che tutti conosciamo). Due donne, Asteria, figlia di Bajazet e Irene, principessa di Trabisonda, promessa sposa di Tamerlano. Irene vuole Tamerlano, che però ama Asteria, che però ama Andronico. Insomma, classico triangolo da telenovela operistica.

L’allestimento di Davide Livermoore sposta l’azione dalla fine del XIV secolo al tempo della Rivoluzione russa del 1917. A eccezione di una certa comunanza di intenti dittatoriali tra il Tamerlano e Stalin, è difficile immaginare il re degli ottomani Bajazet come Nicola II Romanov o l’imperatore bizantino Andronico a braccetto con Rasputin. È difficile poi riscontrare anche un concreto parallelismo socio-politico, perché la rivoluzione del ‘17 portò al rovesciamento dell’impero russo e alla formazione della Repubblica Federale Sovietica, mentre l’opera di Händel si concentra prevalentemente sul triangolo amoroso, pur innervandola con gli annessi giochi di potere, odio e vendetta, ma senza incentrarsi realmente su una storia politica. Aldilà di questo, lo spettacolo è bellissimo. I sontuosi costumi di Mariana Fracasso sono un tripudio di stole, mantelle, divise e colbacchi e riportano alla mente il meraviglioso dottor Zivago con la grande Geraldine Chaplin. Le luci di Antonio Castro e i video di d-Wok fanno il resto.

C’è un bel contrasto tra l’imponente struttura della Russia imperiale-staliniana e il nocciolo dello stile händeliano che, pur radicato in un’indiscutibile matrice tragica, si sviluppa su piani e volumi più intimi, e su vocalità ben lontane dall’idea di forza e virilità che questa Russia evoca (dei tre protagonisti maschili, uno è tenore e due sono controtenori). La scenografia ideata da Livermoore insieme a Giò Forma e coi video di d-Wok, è ispirata all’estetica del regista russo Ejzenštejn: bianco e nero, paesaggi nebbiosi e desolati, tinte fredde. E poi azione, tanta azione.  Regia e scene cinematografiche, come spesso abbiamo visto nelle produzioni di Livermoore. Tutto inizia con la decapitazione della statua dello zar Alessandro III. Poi la scena si apre sulla tundra russa attraversata da un treno vero che viaggia per finta. Il treno raggiunge una sorta di lussuoso Palazzo d’Inverno, dove si consumano i principali confronti di quella che è un’opera incentrata più sullo scambio tra i personaggi che tra le emozioni interiori dei protagonisti.

La concertazione di Diego Fasolis è oculata e misurata, pur senza annoiare.  L’Orchestra è precisa, proporzionata nei volumi e coerente con lo stile esecutivo del repertorio. I recitativi che tanto piacevano ai coevi di Handel, sono curatissimi, sia quelli parlati sia quelli cantati. Non ci sono tagli (se non quelli che lo stesso autore lasciò alla discrezionalità dell’interprete), e tutte le arie sono eseguite con i loro da capo (cosa non scontata oggigiorno), garantendo quella circolarità e quella possibilità di eseguire le variazioni che contraddistinguono questo repertorio.

Venendo al cast vocale, il Bajazet di Placido Domingo è un’opera nell’opera. Dimentica la parte, si barcamena in un repertorio che non è il suo, ma porta a casa il risultato. Non perché è Placido Domingo, e gli si debba quindi aprioristicamente qualcosa, ma perché il personaggio che ne risulta è un trionfo di umanità, forza e passione. È in Bajazet che risplendono tutti i padri verdiani, gli eroi veristi e i guerrieri wagneriani che il grande tenore ha interpretato nella sua sterminata carriera. È nelle piccole frasi che viene fuori quel colore di voce che ha fatto emozionare generazioni di melomani. Ed è nella scena del suicidio finale che si esprime appieno il grande talento drammatico di un artista senza età.

Il Tamerlano del controtenore statunitense Bejun Mehta sfoggia una limpidezza di smalto e squillo sorprendenti. L’ambiguità insita nel registro controtenorile arricchisce poi il personaggio di un valore aggiunto.  Meno bene l’Andronico di Franco Fagioli. I cambi di registro sono spesso disomogenei, l’intonazione talvolta vacilla, ma gli si perdona tutto perché dalla platea si ha l’impressione di assistere a un vero duello tra superstar barocche come quelli che vedevano le (fortunate) platee del ‘700.

Sul fronte femminile ho apprezzato il maiuscolo contributo di Mariane Crebassa. Precisa, intonatissima, cove scura ed emissione sicura. Gli outfit di Mariana Fracasso ne fanno una sorta di diva anni venti, che ricorda la splendida Marillon Cottilard di Midnight in ParisMaria Grazia Schiavo è un’Asteria piena di fuoco, coraggio e dolcezza. Vocalmente è interprete raffinata e precisa, salvo qualche secchezza in acuto.

Il Leone di Christian Senn è a fuoco per intonazione e contributo attoriale. Il tentativo registro di rievocare il mitico monaco Rasputin riesce però solo a metà, mancando evidentemente la fisicità e la forza magnetica del grande monaco siberiano, che arrivato alla corte dei Romanov nel 1908, influenzò il destino della zarina Alessandra Romanov.

Otto minuti di applausi in un teatro in estasi. Che a Milano siano diventati tutti händeliani è poco probabile, ma ora che questo grande capolavoro barocco è arrivato alla Scala, speriamo di vederne altri presto.

Pietro Gandetto

(Milano, 12 settembre 2017)

La locandina

Tamerlano Bejun Mehta
Bajazet Plácido Domingo
Asteria Maria Grazia Schiavo
Andronico Franco Fagioli
Irene Marianne Crebassa
Leone Christian Senn
Direttore Diego Fasolis
Regia Davide Livermore
Scene Davide Livermore e Giò Forma
Costumi Mariana Fracasso
Lighting Designer Antonio Castro
Video Videomakers d-Wok
Orchestra del Teatro alla Scala

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