Milano: Tragedia e Sublime, Noseda sul podio della Scala

Il concerto del 18 marzo alla Scala è uno di quelli che vale la trasferta. Di nuovo alla guida della Filarmonica della Scala, Gianandrea Noseda ha offerto un programma con due protagonisti: Maurice Ravel, in prima parte con Ma mère l’oye e la Seconda Suite da Daphnis et Chloé, e Pëtr Il’ič Čajkovskij, che ha terminato il concerto con il suo estremo capolavoro, la Sinfonia n. 6 “Patetica”.

L’inizio è stato un po’ in sordina. Nonostante le inappuntabili sonorità pastose della Filarmonica e i perfettamente realizzati momenti di smarrimento di Petit Poucet, mancavano a tratti lo sguardo innocente e i guizzi infantili che animano Ma mère.

Questo si è percepito soprattutto nell’attacco di Ladeironnette, un attacco che non smette di destare stupore anche al centesimo ascolto, ma che anziché restituire un’improvvisa ventata di freschezza e vitalità ritmica è risultato invece piuttosto impacciato, anche a causa della non disinvolta esecuzione da parte dell’ottavinista.

Dove è veramente emersa la coinvolgente morbidezza della Filarmonica della Scala è stato sul conclusivo Le jardin féerique: qui la spontaneità espressiva di Noseda ha condotto l’orchestra in ampi e sereni archi, in cui dettagli di fraseggio rendevano lampante le influenze debussiane nell’opera.

Se l’interpretazione di Ravel è spesso caratterizzata da una ricerca di delicata trasparenza e di una nitidezza di contorni più nettamente novecentesca (anche nelle riprese di stilemi della tradizione pre-romantica), Gianandrea Noseda ha invece scelto un approccio più sfumato nei contorni, ma al contempo architettonicamente assai solido.

Un Ravel, insomma, distintamente figlio di Debussy e Fauré. Questo si è percepito con ancora più chiarezza in Daphnis et Chloé, in cui anche l’orchestra ha dato prova migliore rispetto a Ma mère: qui anziché alleggerirsi in delicati giochi di luce e riflessi, la Filarmonica della Scala non ha mai perso un certo peso specifico, che nella concertazione di Noseda significava una costante attenzione a contrabbassi e viole, forse al fine di marcare proprio le sonorità più gravi e insistere sull’omogeneità della pasta orchestrale.

La minore attenzione al leggero arabesco timbrico ha anche aiutato ad evitare una certa stasi che, non necessariamente a torto, può congelare il flusso musicale in una raffinata contemplazione. La direzione direzione di Noseda ha invece prediletto morbidezza di linee e compattezza di suono, con un’efficacia drammatica che si è manifestata soprattutto nei nervosi impulsi ritmici e nelle maestose apoteosi (in senso apollonmusagettiano, s’intende). Assolutamente da segnalare, poi, il bellissimo solo del primo flauto, Andrea Manco.

Da queste premesse è facile comprendere come sia la Patetica di Čajkovskij sia stata il vero climax del concerto. Fin dall’attacco del solo di fagotto, il tono scuro e grave della Sinfonia è emerso con distinta chiarezza, proseguendo poi con i tesi interventi degli archi e i rapidi scambi tra sezioni. La tensione espressiva non è mai venuta a mancare nel movimento ed è stata solo acuita dalla visione “a blocchi” di Noseda.

Il direttore milanese ha infatti la tendenza a organizzare il fluire musicale in marcati e a volte squadrati blocchi dinamici, in cui la dinamica richiesta è realizzata sempre con solida pienezza, sia essa il più flebile pianissimo o il più ampio fortissimo. Una gestione nervosa e contratta di rubato e accelerando, spesso trattenuti fino all’ultimo, evidenzia poi il conflitto tra questi blocchi dinamici in cui, tuttavia, non si giunge mai all’isterica esasperazione. Tale approccio ha certamente portato ad un Čajkovskij di grande impatto e tragicità ma ha due principali rischi: il primo è una maggiore difficoltà nella fluida eleganza del secondo movimento, le cui movenze danzanti avrebbero necessitato di un respiro più leggero o più nostalgico; il secondo rischio è invece più generale.

A volte all’interno dei singoli blocchi dinamici, la cui forza drammatica, ci tengo a sottolineare, è enorme, manca una distinta direzionalità. Una volta giunto ad esempio a un fortissimo, pieno, intenso, perfettamente sagomato, Noseda corre il rischio di incagliarvisi, conducendo ad un senso di staticità nel singolo blocco. Proprio questa visione a bande di suono, sostenuta dal gesto sempre ampio e nervoso, limita infatti quel fraseggio interno che è costituito da un’infinità di piccoli diminuendo e crescendo e sottili variazioni dinamiche.

Se nei rapidi scarti dinamici questo quasi non si percepisce (ed anzi il non perdersi in troppi e a volte artificiosi dettagli ne esalta la violenza espressiva), esso risulta invece più lampante nelle fasce più ampie. È l’abilità di Noseda nel tenere sempre viva la tensione ad evitare quel senso di pesantezza che in altri direttori risulterebbe quasi insostenibile.

Dopo il valzer, il terzo tempo della Patetica ha riportato la Sinfonia sui binari del dinamismo drammatico: Noseda ha letteralmente lanciato la Filarmonica della Scala a velocità vertiginose, rette peraltro con notevole disinvoltura dalla solidissima compagine, riuscendo così a donare un senso militare a tutto il movimento senza mai cadere nel pomposo.

Vero punto di arrivo del concerto, però, è stato il Finale. Abbandonata la bacchetta sul leggio, scelta fortunata, Noseda ha disegnato un Adagio lamentoso di intensità quasi surreali. Mai una volta in tutto il movimento la tensione è stata abbandonata, anche grazie alla comunione di respiro tra orchestra e direttore. Il gesto di Noseda non sarà, come dire, dei più ortodossi e di sicuro la Filarmonica della Scala non aveva gli occhi puntati sul suo direttore, ma nel risultato finale questo appare sorprendentemente irrilevante.

Gianandrea Noseda ha un’incredibile capacità di rivivere il fatto musicale, di percepirlo con acuta chiarezza, ma il suo non è vuoto dimenarsi mentre l’orchestra procede stolidamente sul suo percorso: volente o nolente l’orchestra viene trascinata nella sua percezione, tra tragicità ed esaltazione, espansiva cantabilità e introversa riflessione.

Sul podio di Noseda si è svolto tutto il dramma dell’uomo di fronte alla morte, dramma in cui l’orchestra è stata letteralmente trascinata. Un Finale, quello di questa Patetica, che nella sua rinuncia a qualsiasi tono pacificatore, nella sua estrema ma mai esagerata sofferenza e nella sua sublime densità sarebbe valso da solo l’intero concerto.

Alessandro Tommasi
(18 marzo 2018)

La locandina

Filarmonica della Scala
Direttore Gianandrea Noseda
Programma
Maurice Ravel Ma mère l’oye
Daphnis et Chloé (Suite n.2)
Pëtr Il’ič Čajkovskij Sinfonia n.6 in si min. op. 74 “Patetica

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