Nicolò Jacopo Suppa: l‘interpretazione nasce dall’analisi

Finalista al Premio Cantelli 2022, il prossimo 4 settembre, Nicolò Jacopo Suppa incarna plasticamente la stagione felice per le bacchette italiane under 30, una Generazione Z di grande talento. Lo abbiamo incontrato durante il Festival Settenovecento di Rovereto dove ha diretto due magnifici concerti.

  • Come si trova, lei ventinovenne e quindi giovanissimo, a dirigere un’orchestra a sua volta giovanissima come la Settenovecento?

In realtà molto bene, nella misura in cui appunto sono molto più vicino a loro rispetto a quando mi trovo a lavorare con altre orchestre. La cosa bella è che c’è tanta voglia, i ragazzi della Settenovecento ci mettono l’anima, lavorano bene, strumentalmente sono eccezionali. Poi comunque hanno dei bravissimi tutor-preparatori con i quali hanno fatto ottime prove sezioni; ho dovuto mettere a posto alcune cose a livello tecnico non semplici perché soprattutto Schumann ha delle difficoltà mastodontiche che mettono in crisi qualsiasi orchestra e che loro hanno superato benissimo. Una cosa che mi è piaciuta molto è che sono riuscito a dare da subito un’impronta musicale precisa ad ogni pezzo, trovando il suono di Mendelssohn, quello di Britten e quello di Schumann, veramente bravi e duttili. Forse l’unica difficoltà che ho riscontrato, ma è perché sono davvero giovanissimi, è dovuta un po’ di inesperienza – ma ci siamo passati tutti – è bisogna ribadire alcuni concetti, ma nel momento in cui li si ribadiscono loro e vengo assimilati escono fuori cose davvero molto belle dal punto di vista musicale. La notina sfuggita si perdona, purché sia fatta con musica.

  • Un’operazione riuscita, dunque …

Sicuramente sì. Tutto si deve alla preparazione dei ragazzi e ai tutor che, come dicevo prima, hanno fatto un lavoro davvero eccezionale; i preparatori dei fiati, quelli degli archi che non soltanto supportano i ragazzi non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello psicologico, il che non è indifferente.

  • Stavo pensando che molti direttori dell’ultima generazione, lei incluso, sono violisti. C’è un motivo, secondo lei o è solo una coincidenza? Lei come è arrivato alla direzione d’orchestra?

(ride) Non so se ci sia una ragione particolare. Io ho sempre avuto il pallino della direzione d’orchestra, ma prima ancora del canto. Io mi sono innamorato della musica ascoltando a cinque anni e mezzo la Bohème a Torre del Lago; da lì le domande molto banali che può fare un bambino tipo “Ma papà come fanno a fare la neve in estate?”. I miei genitori erano parecchio stupiti del fatto che fossi rimasto attento e “rapito” per più di tre ore. Alla fine della serata avevo deciso che avrei fatto il musicista, anzi sarei stato il cantante lirico e la mia carriera musicale è cominciata con l’ingresso nel Coro di voci bianche della Scala, poi i ruoli da “solista”: Gherardino, il Pastorello, e anche la stessa Bohème. Poi mi sono avvicinato allo strumento, dapprima il violino ma – mi perdonino i violinisti – ha un suono troppo acuto, mentre la viola è quella che secondo me ricorda di più la voce umana, ha un colore stupendo. Oltre al diploma in viola quello di Composizione, perché trovo che per un direttore siano imprescindibili, oltre ad una buona conoscenza del pianoforte, per la piena comprensione della pagina. Troppo spesso si sentono direttori rispondere alla domanda “Perché fai questa cosa?” con un “Perché la sento.”, e invece no: l’interpretazione deve nascere dallo studio e dall’analisi della partitura, dopo averla analizzata in tutte le sue sfaccettature si può mostrare quello che sta dietro al segno scritto. Tornando alla viola posso dire che ho suonato tanto in orchestra e questo per me è stata una grande fortuna perché ho avuto l’opportunità e la fortuna di poter lavorare con molti grandi direttori, ho potuto vedere come lavorano, quello che si deve fare ma soprattutto quello che non si deve fare.

  • E qui si innesta un’altra domanda: quanto è importante il “fare gavetta” come assistente di un direttore d’orchestra?

Tanto, veramente tanto. Perché lì si ha l’opportunità di vedere come lavora un direttore, anche senza magari fare l’assistente in senso proprio ma semplicemente andando ad assistere alle prove dei grandi maestri è una lezione. Penso, se posso fare un nome, a Daniele Gatti con il quale ho studiato. Le sue prove sono vere lezioni di direzione, anche solo quando vedi il gesto che si traduce in suono in funzione dell’idea musicale, come parla e che cosa chiede all’orchestra. E tutto fa, mattoncino per mattoncino.

  • Ultima domanda. Parliamo del Concorso Cantelli, che ha fortunatamente ripreso vita. Su diciotto finalisti gli italiani sono, lei compreso, quattro; una bella media. Come vede il futuro della direzione d’orchestra in Italia? Personalmente constato un fiorire di suoi coetanei tutti bravi e tutti avviati.

Le due grandi scuole di direzione d’orchestra sono quella italiana che discende da Toscanini e quella tedesca che fa capo a Furtwängler, quindi abbiamo già un retaggio non indifferente; noi discendiamo da Votto, Giulini, Abbado, Muti, il che non è poco. La cosa che secondo me fa davvero la differenza è la preparazione generale. Mi spiego: in occasione di masterclass di istituzioni di un certo prestigio, confrontandomi con altri ragazzi di diversa provenienza – Spagna, Stati Uniti, Brasile, Regno Unito, per citarne alcuni – restano stupiti dalla nostra conoscenza della partitura. Per loro è un po’ “vado lì, mando insieme le cose, dò gli attacchi, un po’ piano un po’ forte e fine”; sono strutturati su quello, mentre invece la direzione d’orchestra è altro. Le orchestre chiedono altro, non si accontentano che tu “metta a posto” due o tre cose e morta lì, vogliono sapere il tuo pensiero musicale sull’autore e sulla pagina, la profondità dell’idea. La scuola di direzione d’orchestra in Italia porta già con sé un bagaglio culturale per affrontare la partitura che in altri paesi manca; alcuni sono ottimi tecnici preparatori, ma dov’è il musicista? Dove la visione musicale del brano? Dove la concezione dell pezzo dietro il segno scritto?

Alessandro Cammarano

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