Ottanta minuti in Sol maggiore

“Caro Goldberg, suonami dunque una delle mie variazioni!”. Se dovessimo credere al celeberrimo racconto tramandato dal Forkel, sarebbe il caso di chiamarle “Variazioni Keyserlingk”, dal cognome del musicofilo conte che nel 1740 o 1741 le avrebbe letteralmente acquistate a peso d’oro. Ma i moderni musicologi sono strana gente. Disposti ad arrampicarsi sugli specchi quando si tratta di autenticare certe pretese scoperte da cui si ripromettono gloria mediatica e diritti d’autore, diventano di colpo arcigni come pubblici ministeri ed esigono prove su prove quando sul banco degl’imputati siedono i pionieri della loro stessa disciplina, ossia la vituperata “tradizione”.

Prendiamo appunto il caso di Johannes Nikolaus Forkel, considerato il fondatore della musicologia scientifica tedesca. Nella prefazione alla sua biografia bachiana stampata nel 1802, egli assicura di aver frequentato i due figli maggiori del Cantor sommergendoli di domande orali e scritte “per il corso di lunghi anni”, specie Carl Philipp Emanuel. Quest’ultimo era morto alla fine del 1788, il maggiore Wilhelm Friedemann quasi cinque anni prima. Basta un conto della serva per vedere come i presunti sessant’anni di distanza dai fatti narrati, un lasso di tempo considerato sospetto dai nostri scettici, si riducano di molto, forse a meno della metà.

Altro punto controverso: il frontespizio della prima edizione, uscita a Norimberga nel 1741, non reca alcuna dedica, il che sarebbe inconsueto nel caso di un così generoso patrono. Sia pure, salvo che nel 1741 era in corso la prima delle cosiddette “guerre per la Slesia” tra Federico II di Prussia e Maria Teresa d’Austria, un episodio laterale della più ampia guerra di successione austriaca. L’impero russo, che il conte Hermann Carl von Keyserlingk rappresentava in veste di ambasciatore a Dresda, e l’elettorato di Sassonia, di cui Bach era suddito nonché compositore di corte, vi militavano in opposte coalizioni. Ipotesi per ipotesi: rinunciare a una dedica politicamente compromettente per l’autore non sarebbe stato atto di prudenza degno di un esperto diplomatico quale il conte Keyserlingk? Il quale peraltro intrattenne un rapporto durevole e ampiamente documentato con Johann Sebastian, la sua famiglia e i suoi allievi, tra i quali si conta lo sfortunato Johann Gottlieb Goldberg, fanciullo prodigio morto nel 1756 a soli ventinove anni lasciandosi dietro una non trascurabile messe di composizioni vocali e strumentali.

In attesa di prove conclusive che ci autorizzino a scartare come pura leggenda il racconto tradizionale sulla loro origine, continueremo dunque, se non altro per comodità, a chiamare “variazioni Goldberg” quelle che sul frontespizio dell’edizione originale s’intitolavano Clavier Ubung [sic] bestehend in einer Aria mit verschiedenen Veraenderungen vors Clavicimbal mit 2 Manualen (Esercizio per tastiera consistente in un’Aria con diverse variazioni per il Clavicembalo a due manuali). Dietro un’etichetta in apparenza così povera di pretese si nascondeva praticamente di tutto: contrappunto canonico a due voci, una fughetta, addensamenti accordali da cui nascono clusters cromatici quali la musica occidentale non avrebbe più osato prima del ventesimo secolo. E ancora: una pomposa ouverture in stile francese (introduzione lenta seguita da un fugato), movimenti di danza, una parodia di canzonacce popolari… Il tutto ordinato con quel furore geometrico e combinatorio che, se non è tratto esclusivo della scrittura bachiana, nelle sue ultime produzioni raggiunge livelli di saturazione tali da sfidare i limiti di una mente musicale umana non assistita dal computer.

Tralasciando i dettagli: per nove volte di seguito si ripete implacabilmente un modulo ternario formato da due movimenti di carattere libero più un canone. I canoni sono costruiti su distanze intervallari crescenti, dall’unisono alla nona; a metà esatta della composizione la sequenza s’interrompe per poi ripartire da capo dopo la citata ouverture alla francese (n. 16). Con questo divertissement e la precedente Fughetta (n. 10), il totale dei movimenti di variazione giunge a 29, creando la logica aspettativa di un finale che coroni degnamente l’opera con un bel numero tondo. Sorpresa! In luogo dell’atteso canone alla decima abbiamo un Quodlibet che ricapitola elementi delle variazioni precedenti mescolandoli con temi di provenienza esterna. Sulla scorta delle indicazioni fornite da un allievo di Bach, le ricerche sono giunte a identificarne con certezza almeno due, uno dei quali è nientemeno che la “Bergamasca” già variata da Frescobaldi nei Fiori musicali. Alle orecchie tedesche del tempo non poteva sfuggire in questa scelta un sapore di allegro sberleffo, poiché dal combinato dei due testi cantati emerge una sorta di rustico minidramma familiare. Più o meno così: “Per tanto tempo ti restai lontano;/ torna, torna” e “I cavoli e le rape/ mi hanno scacciato;/ se mammà cuoceva carne/ di più sarei restato”.

L’umorismo bisognoso di spiegazioni è solo una freddura d’annata; ai posteri non può suggerire altro che nuove perplessità circa le intenzioni del compositore. Ma l’autentico enigma di questa gioiosa macchina da guerra sta proprio nel suo motore: quell’Aria in Sol maggiore bipartita e ritornellata che non è affatto un’aria col da capo nell’accezione vocale del tempo, peraltro conosciuta e ampiamente praticata da Bach. È invece una sarabanda riccamente ornata, ancora una volta in stile francese, che fornisce alle successive variazioni non un tema melodico, bensì un basso figurato di 16 più 16 battute; in altri termini 32 note fondamentali, tante quante la somma dei movimenti di tutto il lavoro incluse le due ripetizioni dell’Aria al principio e alla fine.

Non mancheranno mai gli adepti della speculazione numerologica pronti a commentare tale evidente simmetria con ogni sorta di mistiche elucubrazioni. A costoro un Bach redivivo potrebbe forse rispondere: “Bella forza! Quei numeri ce li ho messi apposta perché mi stava bene così. Cosa andate mai ad immaginarvi?” Al comune mortale che le ascolta senza partitura né calcolatrice alla mano tali squisitezze analitiche diranno ben poco, sempre ammesso che arrivi a rendersene conto anche dopo un’audizione corredata da note di sala.

Piuttosto egli sarà incline a domandarsi, come fanno anche taluni interpreti più avveduti: “Perché ottanta minuti quasi costantemente in Sol maggiore non fanno morire di noia me stesso e l’uditorio? Come mai non scappano tutti dopo una decina di variazioni o anche meno?” Verso il 1806 tale era appunto la reazione che ci descrive E.T.A. Hoffmann nella sua Kreisleriana. Certo: il gusto musicale era cambiato, lo strumento originale (il grande clavicembalo franco-fiammingo a due manuali) si era pressoché estinto da una generazione. Sui gracili fortepiani in uso all’epoca l’interprete non poteva più disporre della medesima spazializzazione e varietà timbrica, ma nemmeno di un adeguato volume di suono. Di qui l’inevitabile senso di monotonia, confusione, difficoltà tecnica non compensata dal risultato udibile. Per tutto l’Ottocento le Goldberg rimasero confinate allo statuto museale di “musica per musicisti”, tuttalpiù oggetto di liberi recuperi antologici da parte di virtuosi come Liszt.

Si pensi che ancora un secolo fa, nel 1915, Ferruccio Busoni ritenne necessario cucinarne una versione pianistica da concerto “modernizzata” col tagliare tutti i ritornelli, riordinando e abbreviando la sequenza delle variazioni, dilatando estensioni e salti intervallari, armonizzando voci e trasformando l’Aria in una specie di corale organistico.

Era troppo. Nei decenni successivi la restaurazione “autenticista” si sviluppò in due direzioni: da un lato col recupero sempre più filologico dello strumento originale (Wanda Landowska, Ralph Kirkpatrick, Gustav Leonhardt), dall’altro (Harold Samuel, Rosalyn Tureck, Claudio Arrau, Alexis Weissenberg) col tentativo di tradurre la veneranda pagina bachiana in un idioma pianistico appropriato allo Steinway gran coda e confratelli. La Tureck, che tentò entrambe le strade, ci ha lasciato registrazioni illuminanti circa il pro e il contro dell’una e dell’altra soluzione.

Altro storico spartiacque è l’interpretazione pianistica incisa da Glenn Gould nel 1955. Nel bene o nel male, la sua vulcanica soggettività non lasciò indifferenti i colleghi; a dimostrarlo basta il dato statistico. Calcolando a spanne: se nel trentennio precedente erano uscite dieci registrazioni integrali delle Goldberg, in quello successivo il numero di nuove edizioni era salito a 16, e dal 1980 al 2010 (crisi dell’industria discografica non ostante) aveva superato la sessantina. Già nel 2002 Charles Rosen aveva così riassunto lo stato dell’arte nel suo polemico volume Piano Notes: “Oggi, in mancanza di uno standard universalmente accettato, quando né la sonorità autentica né la sobria cantabilità accademica riescono a convincere o ad avvincere, le interpretazioni di Bach sul pianoforte moderno oscillano tra la sfrenata eccentricità — apprezzabile solo qualora la sensibilità del pianista sia eccezionalmente interessante — e un compassato, monotono viaggio nella partitura”.

Bordeggiando fra questi due scogli con la bussola dell’analisi e la cartografia dei precedenti, ogni nuovo interprete dovrà intrepidamente cercare la sua rotta, abbastanza personale da giustificare a se stesso e agli ascoltatori la pena di una tanto ardua navigazione. Il premio promesso non è piccolo: fin dal 1965 il neurologo bulgaro Georgi Lozanov ci assicura che l’ascolto delle Goldberg incrementa nel cervello la produzione delle onde alfa, la coordinazione fra gli emisferi, la capacità di apprendimento e di memorizzazione. Il che ci riporta alla contestata storiella del conte Keyserlingk. Sofferente d’insonnia cronica, le “sue” variazioni le ascoltava non già per addormentarsi sopraffatto dalla noia, bensì per “rallegrarsi un po’  l’umore”. Chi rimprovera a Forkel l’apparente paradosso ignora l’effetto noto alla moderna psicoscienza come “decondizionamento”.

Carlo Vitali

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