L‘enigma dell’ultimo Mozart
Con La Clemenza di Tito (Praga, 1791) Wolfgang Amadeus Mozart chiude il suo percorso creativo. E lo fa da Genio assoluto della musica, rivitalizzando un genere, l’opera seria, che stava languendo e restituendo dignità creativa a un lavoro d’occasione, composto su commissione degli Stati di Boemia per solennizzare l’incoronazione dell’Imperatore Leopoldo II d’Asburgo e scritto a tambur battente su uno dei tanti libretti di Pietro Metastasio adattato dal poeta della corte di Sassonia Caterino Mazzolà.
Il successo, all’epoca, fu di stima e solo in tempi recenti si riconosce nell’opera estrema del Salisburghese uno dei suoi lavori maggiori.
Mozart, insomma, dopo i lazzi di Papageno in Die Zauberflöte, firma con questo lavoro enigmatico il suo testamento di esteta e di uomo del secolo dei lumi.
Al Palais Garnier, che in questa stagione la ripresenta, La Clemenza di Tito è arrivata nel 1997 soltanto in una bellissima produzione di Willy Decker la stessa che ora è ripresa e che, nell’era Mortier, era stata sostituita dall’allestimento ormai storicizzato di Karl-Ernst e Ursel Herrmann creato nel 1982 a Bruxelles e dieci anni più tardi al Festival di Salisburgo. Nel dopo Mortier si è tornati all’ormai classico Decker che dello spettacolo firma la regia con la collaborazione di John Macfarlene per le scene e i costumi e di Hans Tolstoede per il disegno delle luci, e coglie perfettamente il centro di quest’opera conservatrice ed eversiva al tempo stesso che è una riflessione sul potere e sulle limitazioni esistenziali di chi lo esercita costretto, in suo nome, a sacrificarle gli affetti più cari.
Tito, imperatore saggio, deve, in nome della ragion di Stato, non solo rinunciare al matrimonio con l’amata Berenice, ma scoprire la debolezza del suo migliore amico, Sesto che l’ambiziosa Vitellia, di cui il giovane è amante, manovra a proprio piacimento pur di raggiungere il suo scopo, l’Impero di Roma e del cuore di Tito.
Opera d’intrighi politici e di sottili ambiguità, insomma, e perciò~ stesso ancora attualissima. Ma anche opera dal finale aperto: la clemenza di Tito non porta a chi ne è oggetto la felicità, lo lascia semmai sconfitto (Vitellia) o in preda ai propri rimorsi (Sesto). E la versione di Decker ne valorizza ogni dettaglio inserendola in una cornice architettonicamente accattivante che coniuga neoclassicismo e modernità e si avvale di colori chiari, il giallo della coppia felice formata da Annio e Servilia amico e sorella del deuteragonista, che spicca sul bianco o nero degli altri personaggi, illuminati di tanto in tanto da inserimenti cromaticamente più vivaci quando sono di scena i contrasti e le passioni che agitano il dubbioso Sesto e l’intrigante Vitellia.
Due le compagnie che l’Opéra National ha radunato per questo nuovo ciclo di rappresentazioni. Noi abbiamo ascoltato la più equilibrata, la seconda delle due, in cui proprio l’interprete di Sesto, una Marianne Crebassa che abbiamo ritrovato trasfigurata in questo magnifico spettacolo, si rivela l’elemento più interessante. Scenicamente e musicalmente magistrale, la giovane cantante francese realizza come meglio non si potrebbe le sue grandi arie, in particolare, la celeberrima “Parto, parto, ma tu ben mio” con clarinetto obbligato, scandisce con foga i recitativi, fraseggia con generosità e passione. Aleksandra Kurzak, debuttante in Vitellia, non le è da meno e la sua interpretazione, nonostante qualche impaccio nelle agilità più ostiche della prima aria, domina una tessitura abnorme e s’impone di scena in scena disegnando un personaggio a tutto tondo. Michael Spyres è un grande vocalista più che un cantante-attore, ma qui supera se stesso ed è un Tito ideale. Del resto se c’è una virtù più ammirevole del perdono cantato dalla Contessa ne Le Nozze di Figaro, questa è la misericordia che Tito, rinunciando a diventare il monumento di se stesso, proclama nel finale dell’ultimo lavoro mozartiano in cui la pietà e la passione si presentano e si piegano alla legge imperiosa della bellezza. Il canto di Spyres tutto questo l’ha saputo restituire nel migliore dei modi.
Validi si sono rivelati anche i contributi di Angela Brower (Annio), dell’aggraziata Valentina Nafornita (Servilia) e di Marko Mimica (Publio), come pure quello del coro stabile dell’Opéra preparato da Alessandro Di Stefano. Dal podio Dan Ettinger ha governato quest’opera così complessa con grande determinazione e dedizione e ha portato l’orchestra stabile dell’Opéra National a realizzare un suono per lo più energico e vibrante, non senza trascurare le oasi di lirismo e di medatività. Si usa dire che Mozart non fa per lui, noi non ce ne siamo accorti. Il successo al termine della rappresentazione cui abbiamo assistito, la cinquantatreesima in quest’allestimento, è stato molto vivo.
(11 dicembre 2017)
La locandina
Regia | Dan Ettinger |
Scenografia e costumi | John Macfarlane |
Luci | Hans Toelstede |
Tito Vespasiano | Michael Spyres |
Vitellia | Aleksandra Kurzak |
Servilia | Valentina Naforniţa |
Sesto | Marianne Crebassa |
Annio | Angela Brower |
Publio | Marko Mimica |
Direttore | Willy Decker |
Orchestre et Choeurs de l’Opéra national de Paris | |
Maestro del coro | Alessandro Di Stefano |
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Amo la musica di Mozart, ma per il Tito mi sembra un poco esagerato parlare di capolavoro. Concordo con Abert, quando dice che confronto all’Idomeneo Tito risulta sfavorito, perché manca a quest’Opera la convinzione artistica che era alla base di quella giovanile. Ho letto ultimamente l’analisi di Bianchini e Trombetta nel secondo volume della biografia di Mozart e lì mi sembra che i giudizi critici del tempo nei confronti di Mozart ce ne siano molti, a cominciare da chi l’aveva chiamata “porcheria tedesca”. Secondo me bisogna tener conto anche di queste testimonianze se no tutto risulta un capolavoro e non avrebbe senso. Nulla invece da dire per il giudizio sugli interpreti e sull’esecuzione.