Un Barbiere “minimal” per il Théâtre des Champs-Elysées
Dimenticare Rossini? Per chi, come noi, è nato all’ascolto del suo capolavoro all’epoca dei cosiddetti barbieri a torte in faccia, ha ammirato i Figaro ante edizione critica per poi tornare ad apprezzarlo nell’era Zedda quando le regie, e pensiamo a quella storicizzata di Ponnelle e le direzioni d’orchestra, Abbado, il rossiniano doc Bruno Campanella, asciugavano il discorso musicale alla sua essenzialità, tornare oggi al Barbiere di Siviglia, che l’anno passato ha festeggiato i duecent’anni di onorata carriera comica, è sempre un’esperienza un po’ traumatica.
Prendiamo l’esecuzione che il Théâtre des Champs-Elysées propone a fine 2017 come fiore all’occhiello di una stagione che a Parigi è ormai l’unica alternativa a quella maggiore dell’Opéra National.
Il regista, per l’occasione anche scenografo e costumista, è Laurent Pelly che tanti begli spettacoli ci ha regalato in passato, pensiamo ai suoi Offenbach con Felicity Lott o alla donizettiana Fille du régiment con Natalie Dessay, ma che da qualche tempo è passato di moda.
Qui si ripresenta con uno spettacolo minimalista in cui la scenografia è ridotta all’osso, un foglio di musica gigante che, con dimensioni e spostamenti che lo pongono ora al centro ora ai lati del palcoscenico, funge da cornice alla vicenda ben nota raccontata da Beaumarchais e poi ripresa dal librettista rossiniano Cesare Sterbini.
Lo spazio è, per così dire, vuoto o quasi, gli elementi scelti per riempirlo pochissimi e i costumi – l’azione non ha tempo, ma certo siamo ben lontani dall’originario Settecento – virano fra l’ocra, colore dominante della rappresentazione, e il bianco e nero. Come dire, l’esatto opposto del ricchissimo e coloratissimo Barbiere in salsa Almodovar firmato da Damiano Michieletto che l’Opéra Bastille continua nel frattempo a riprendere.
In buca c’è un ensemble che suona su strumenti d’epoca, il ben noto Le Cercle de l’Harmonie: un complesso eccellente che offre suono nutrito, morbido e, come da titolo, armonioso, ma qui sotto la direzione, implacabilmente metronomica e quindi antirossiniana per definizione, di Jérémie Rhorer, una celebrità in Francia.
La compagnia di canto radunata dal teatro di Avenue Montaigne è composita. Il Conte d’Almaviva di Michele Angelini, formatosi all’Accademia del Rossini Opera Festival di Pesaro e già presente su ribalte illustri, sfoggia voce piccola ma agile e moderatamente estesa, grande dinamismo scenico e figura appropriata per rappresentare più l’amoroso che il grande di Spagna. Brilla nell’agilità dell’aria finale che lo spettacolo, l’esecuzione è integralissima, ripresenta, ma è incerto quando la tessitura, sostanzialmente centrale del Conte, gli fa raggiungere le vette.
Già apprezzato in altre occasioni il Figaro di Florian Sempey si conferma personaggio a tutto tondo, abile nello scilinguagnolo e nei sillabati che ne caratterizzano la personalità, ma anche in grado di dominarne l’acuta tessitura con suoni tersi e ben calibrati. Insomma un Figaro d’inesauribile simpatia e vitalità che, però, in uno spettacolo tanto essenziale tende a strafare sfoggiando acuti non richiesti e variazioni avventurose oltre a un tatuaggio sul braccio non richiesto. La Rosina di Catherine Trottmann, minuta e delicata nei tratti e non pienotta e genialotta come il testo richiederebbe, è un mezzosoprano per modo di dire e opta, qui e là, per il virtuosismo della versione sopranile con buon dominio del registro acuto e sopracuto. L’agilità, però, non è rifinitissima e in alcuni momenti, per esempio nell’interminabile cadenza dell’aria della lezione, finisce per diventare una Rosina sussiegosa e saccente più che viperina e dinamica.
I personaggi maturi sono affidati con buon esito a Peter Kalman che è un Bartolo molto centrato scenicamente anche se non sempre a piombo nei recitativi e nel sillabato della sua grande aria, al tonante Basilio di Robert Gleadow che il pubblico ha molto apprezzato dopo una calunnia piuttosto riuscita e alla Berta dal carattere aggressivo di Annunziata Vestri. Completavano la compagnia, il Fiorello di Guillaume Andrieux, l’Ambrogio di Stéphane Facco e il Choeur Unikanti, un complesso più avvezzo alla musica sacra che al teatro musicale.
Quanto alla direzione di Rhorer, musicista serio e preparato che nel corso degli anni sta facendo crescere la sua creatura, per il Barbiere ha scelto tempi piuttosto serrati – a volte mettendo in difficoltà i cantanti-attori -, sonorità ben calibrate, ma vuoi perché Rossini non è autore esattamente nelle sue corde, vuoi perché garantire l’equilibrio tra orchestra e palcoscenico non è sempre facile, ci è sembrato meno efficace che in altre occasioni. Peccato. Il pubblico, molto folto, l’ha comunque molto festeggiato, assieme a tutti gli altri artefici dello spettacolo, al termine della rappresentazione. Rossini, papà buono secondo la definizione stendhaliana, vince sempre e con il Barbiere continua a stravincere.
(9 dicembre 2017)
La locandina
Direttore | Jérémie Rhorer |
Regia, scenografia, costumi | Laurent Pelly |
Assistente scenografo | Cléo Laigret |
Assistente costumista | Jean-Jacques Delmotte |
Luci | Joel Adam |
Il Conte Almaviva | Michele Angelini |
Figaro | Florian Sempey |
Rosina | Catherine Trottmann |
Bartolo | Peter Kálmán |
Basilio | Robert Gleadow |
Berta | Annunziata Vestri |
Fiorello | Guillaume Andrieux |
The Circle of Harmony | |
Direttore del coro | Unikanti Gaël Darchen |
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