Pesaro: completata la Renaissance ora è venuto il momento di cambiare passo

La Rossini Renaissance, ovvero la scoperta che questo grande musicista non è solo l’autore del “Barbiere di Siviglia” o del “Guillaume Tell”, fu all’inizio un movimento senza un centro di gravità permanente, determinato dalla visione e dalla qualità di un ristretto gruppo di storici cantanti e direttori d’orchestra. Le prime grandi rivelazioni, le prime riscoperte sono merito di quei pionieri e risalgono all’epoca fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Poi, verso la fine di quel decennio, cominciò a concretizzarsi un’orgogliosa e decisa assunzione di ruolo e di responsabilità da parte di Pesaro – la città natale del compositore, erede dei suoi cospicui beni – e della Fondazione Rossini, decisiva con i suoi progetti musicologici nel creare le condizioni perché tutta la musica di questo autore uscisse un po’ alla volta dagli archivi e trovasse la via delle scene, per le quali era nata. Si era nel 1980 quando nasceva una nuova storia virtuosa di intenzioni realizzate e di volontà rispettate, con la realizzazione di un festival che come nessun’altro al mondo ha saputo – nei suoi primi quarant’anni – valorizzare questo immenso lascito artistico e culturale.

Era un festival dotto, perché riportare alla luce opere mai più rappresentate dopo gli esordi, o abbandonate dalla consuetudine rappresentativa nel cuore dell’Ottocento, rappresentava anche una sfida di gusto, di comprensione, di stile. Nonostante questa oggettiva difficoltà, il successo è stato storico per impatto culturale e di sicura capacità attrattiva per quanto riguarda gli spettacoli. Affidati a cantanti spesso eccezionali, a direttori di solida reputazione, a registi di fama. Il tutto dentro i confini logistici e dimensionali di una manifestazione destinata a un pubblico molto raffinato, proveniente letteralmente dai quattro angoli della Terra, ma in numero assai più contenuto rispetto ad altri storici festival estivi europei.

Sono stati decenni straordinari, di scoperte e di sorprese. Un fantastico viaggio dentro all’intero corpus delle 39 opere scritte da Rossini, via via studiate, pubblicate con apparato critico, portate sul palcoscenico nella maniera più rigorosa, offerte all’interpretazione di un paio di generazioni di superbi cantanti e alla creatività di numerosi maestri della regia. Tutti artisti che nell’impetuoso movimento hanno trovato stimolo, motivazione, da un certo momento facendo anche scuola.

Oggi questo straordinario viaggio musicale di scoperta si può considerare concluso, la “Renaissance” compiuta. Qualche sorpresa potrà arrivare ancora, ma riguarderà i dettagli, per quanto rilevanti. Nei suoi primi quarant’anni, infatti, il Rossini Opera Festival ha rappresentato, spesso rivelato, tutte le opere del suo nume tutelare meno una, il centone “Eduardo e Cristina”, previsto nel 2021. È in dirittura d’arrivo anche il grandioso progetto relativo alle edizioni critiche di tutte le opere, iniziato dalla Fondazione Rossini ancora sul finire degli anni Sessanta. Mancano all’appello solo quattro titoli (“La cambiale di matrimonio”, “L’inganno felice”, “Moïse et Pharaon” e “Le Comte Ory”), tutti gli altri sono già stati pubblicati, o sono in corso di stampa, oppure sono in preparazione ma in larga parte già disponibili per supportare le esecuzioni.

In questa situazione, il ROF è atteso a un passaggio delicato e mai prima affrontato: completata la Rossini Renaissance, occorre cambiare il progetto per affermare una diversa valorizzazione di Gioachino Rossini. Passate all’archivio le rivelazioni e le scoperte, si tratta ora di pensare a una “fase seconda” che inevitabilmente dovrà essere più selettiva, più “critica”, senza perdere le coordinate dell’eccellenza interpretativa. Sempre più negli ultimi anni, e d’ora in avanti esclusivamente, gli appassionati raggiungeranno la città sull’Adriatico per ascoltare un Rossini doc, “alla pesarese” e non per ascoltare musiche mai prima conosciute. Ma quale Rossini? Dato che per fortuna è tramontato il fondamentalismo storico-musicologico secondo il quale tutto di questo compositore è inevitabilmente geniale, e ogni titolo un capolavoro, toccherà all’uomo solo al comando del ROF, il sovrintendente-direttore artistico Ernesto Palacio, trovare la formula che affermi un nuovo equilibrio fra il grande e il meno grande, il noto e il meno noto. Sembra impensabile, infatti, che ci si possa limitare a riprogrammare semplicisticamente il “giro” completo di tutte le opere.

Qualche indizio su come la pensa Palacio si può forse avere considerando i titoli già annunciati per il 2019, che sono “Semiramide”, “L’equivoco stravagante” e “Demetrio e Polibio”. La prima opera, capolavoro arduo ma riconosciuto, manca a Pesaro dal 2003, la seconda (titolo precoce assolutamente minore) è già alla terza proposta negli ultimi 15 anni, l’ultima – numero iniziale nel catalogo operistico rossiniano –  ha avuto la sua prima esecuzione assoluta nel 2010. Lo sbilanciamento verso il Rossini giovanile e alle prime armi, di cui sono esempio due lavori su tre, è evidente. E rischioso. Anche se la più recente ricerca dell’Università di Urbino sui gusti del pubblico fiduciosamente ritiene che «il ROF appare come un Festival che non ha bisogno di rivoluzioni».

Ma le scelte artistiche possono incrinare molte certezze. Meglio sarebbe forse puntare su un gruppo di opere “sicure” (e ce ne sono in tutte le fasi creative rossiniane, dall’epoca giovanile al “Tell”), definire con precisione l’allargato ma non totalizzante circolo dei capolavori, combinandolo poi equilibratamente con le cose più rare e sofisticate. Indispensabile, soprattutto, trovare una cifra artistica in generale più alta di quella sperimentata nel corso del festival 2018.

Quest’anno, le note positive sono venute quasi solo dalle compagnie di canto: eccellente quella di “Ricciardo e Zoraide”, molto buona quella di “Adina”, più ordinaria, fra alti e bassi, quella del “Barbiere”. Ma complessivamente poco significative sono apparse tutte tre le direzioni d’orchestra – e questo è un ambito nel quale una riflessione costruttiva è particolarmente auspicabile. E ancor meno incisivi sono stati gli spettacoli, fra il tradizionalismo decorativo e demodè di Marshall Pynkoski (“Ricciardo”) e la voglia di andare sopra le righe di Rosetta Cucchi (“Adina”). Quanto al “Barbiere”, non ci sembra che Pier Luigi Pizzi abbia consegnato una regia che farà epoca. E rimane dunque il non casuale “imbarazzo” del ROF nei confronti del gran capolavoro comico, per il quale non sono bastati nell’ultimo quarto di secolo nomi di assoluto prestigio come quelli di Squarzina, Ronconi e ora Pizzi per passare agli archivi nella cartella “Memorabili” quegli spettacoli.

Di questo passo, i secondi quarant’anni del Rossini Opera Festival rischiano di partire con l’handicap, tenendo poi conto che il tempo passa anche per formidabili stelle del belcanto come Flórez. Il cui richiamo non è stato da solo sufficiente per riempire la platea dell’Adriatic Arena in occasione di “Ricciardo e Zoraide”. Alla prima, mai ci era capitato di vedere tante sedie vuote. Anche questo un dettaglio, sul quale sarebbe un errore non fare una riflessione. Perfino a Pesaro, oggi, non tutto Rossini viene preso a scatola chiusa. Bisognerà che chi decide se ne faccia una ragione, e adotti le contromisure del caso.

Cesare Galla

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