Salisburgo: strabiliante Hotel Metamorphosis
Il matrimonio tra Vivaldi e Ovidio è già di per sé un evento fortunato; se poi a celebrare le nozze è Barry Kosky – coadiuvato nell’ideazione e nella drammaturgia da Olaf A. Schmitt –allora l’unione è destinata a durare nel tempo.
Hotel Metamorphosis, che ha aperto il Festival di Pentecoste a Salisburgo, dal punto di vista teatrale, è ben più di un pasticcio – genere assai in voga nel teatro barocco e in particolare e Venezia – divenendo nel suo svilupparsi un viaggio nei luoghi dell’anima, un percorso iniziatico alla ricerca della vera e più intima natura dei personaggi attraverso le loro metamorfosi, passando dal “particolare” all’ “universale” rifuggendo sempre e comunque da qualsiasi giudizio e stigma morale.
Tutto prende forma in uno spazio in qualche modo neutro, ovvero una stanza, elegante e impersonale, di un hotel di lusso – la scene curate mel dettaglio più minuto sono di Michael Levine mentre è rocafilm a firmare i video affabulanti, con le luci ammaliatrici di Franck Evin – che si anima delle storie il cui racconto è affidato ad Orfeo, il narratore per antonomasia, evocando i protagonisti che via via appaiono per poi lasciare il posto ai successivi ospiti della camera della quale il Cantore è lo spirito-guida.
Ecco dunque, in successione, dopo un Prologo, dipanarsi le storie di Pigmalione, Aracne, Mirra, Eco e Narciso, tutti somiglianti alla “Gente che viene, gente che va” nel microcosmo di quel capolavoro della cinematografia che è Grand Hotel (1932) di Edmund Goulding.
Mossi da Orfeo – e vestiti dai costumi perfetti di Klaus Bruns – tutti si raccontano come in una seduta psicoanalitica che prescinde da qualunque valutazione etica: i fatti vanno esattamente come devono andare e le metamorfosi sono rivelatrici dalla natura più intima di ciascuno e dunque semplicemente si rivelano.
Alla fine lo stesso Orfeo sarà sbranato dalle menadi e svanirà nelle ombre dell’erebo insieme a Euridice in un’ultima metamorfosi.
La macchina teatrale realizzata da Kosky si muove grazie a ingranaggi narrativi e drammaturgici calibrati al millimetro e che, come accade quando si sa fare davvero teatro, appaiono disarmantemente semplici, immediatamente percepibili, intimamente interconnessi attraverso linee invisibili.
Compendio essenziale al tutto le coreografie meravigliosamente coinvolgenti di Otto Pichler, che sembra trarre ispirazione dai primordi della danza moderna attingendo ai movimenti liberi e scabri di Isadora Duncan ma anche alla liberazione del corpo di Martha Graham.
Se la parte visiva lascia letteralmente senza fiato – oggidì è raro uscire da teatro felicemente esausti ma consci di essere stati testimoni di uno spettacolo tale da rimanere a lungo nella memoria – quella musicale non le è da meno.
Gianluca Capuano – che con il regista australiano ha “cucito” il pasticcio scegliendo tra oltre duecentocinquanta tra arie, pagine sacre e composizioni strumentali del repertorio vivaldiano giungendo ad un risultato di straordinaria uniformità nella varietà –, e con lui Les Musiciens du Prince — Monaco in serata di grazia, compie un’operazione maieutica volta a rivelare ogni più recondito particolare insito nella musica senza tuttavia mai perdere di vista l’essenziale visione complessiva, ottenendo come risultato una lettura di luminosa continuità narrativa poggiata su tempi calibratissimi e costante ricerca di colori e intenzioni.
Nei panni di Orfeo Angela Winkler, colonna del teatro di prosa tedesco, si rende protagonista di una prova maiuscola per partecipazione emotiva e misura esemplare nel rendere la parola.
Sugli scudi la compagnia di canto, a cominciare dal genius loci Cecilia Bartoli, sempre capace di stupire per intensità e proprietà di fraseggio, partecipazione emotiva, capacità di trasmettere.
La sua Euridice fragile e disperata si contrappone all’Aracne irridente che Kosky immagina come una “creatrice di contenuti digitale” avviluppata dalla ragnatela dei cavi del suo laptop, dando vita ad una prova tra le sue migliori di sempre.
Non le è da meno Philippe Jaroussky, vocalmente in grande spolvero, capace di dare forma prima ad un Pigmalione nerd che pare uscito da una puntata di The big bang theory per poi vestire i panni di Narciso alle prese non solo con l’attrazione di se stesso ma anche e soprattutto con la presa di coscienza della sua omosessualità che prende letteralmente forma attraverso i suoi “doppi” – i sensualissimi Prince Mihai e Rouven Pabst – e lo sommrge.
Sontuosa Lea Desandre, voce duttilissima e agilità folgoranti, nel doppio ruolo della Statua eburnea amata da Pigmalione, passando poi a Mirra incestuosa resa qui un’incrocio tra Lolita e l’Alice di Eyes wide shut, e infine di una garrulissima Eco.
A completare il cast Nadezhda Karyazina, voce dai colori infiniti, capace di incarnare con autorità anche scenica la Minerva punitrice di Aracne, la Nutrice sconvolta da Mirra e infine Giunone.
Lodi incondizionate, ancora una volta, al coro Il Canto di Orfeo, preparato da Jacopo Facchini e un applauso ai danzatori che meritano ampiamente di essere citati uno ad uno: Rachele Chinellato, Jia Bao Beate Chui, Martje de Mol, Fanny De-Ponti, Matt Emig, Claudia Greco, Alessio Marchini, Prince Mihai, Rouven Pabst, Teresa Royo, Felix Schnabel e Rens Stigter.
Successo giustamente travolgente, con il pubblico tutto in piedi ad applaudire per dieci minuti, conscio di essere stato parte di una serata memorabile.
Alessandro Cammarano
(6 giugno 2025)
Deutsche Version
Die Vermählung von Vivaldi und Ovid – eine glückliche Fügung: „Hotel Metamorphosis“ bei den Salzburger Pfingstfestspielen
Von Alessandro Cammarano, 6. Juni 2025
Die Verbindung zwischen Antonio Vivaldi und Publius Ovidius Naso ist bereits per se ein glücklicher Kunstgriff; wenn jedoch Barry Kosky – unterstützt in Konzeption und Dramaturgie von Olaf A. Schmitt – die Feier dieser Hochzeit inszeniert, dann ist dieser Bund zweifellos für die Ewigkeit bestimmt.
Hotel Metamorphosis, das die Salzburger Pfingstfestspiele eröffnete, ist auf der Theaterbühne weit mehr als ein „Pasticcio“ – jener im barocken Musiktheater, insbesondere in Venedig, so beliebten Gattung. Vielmehr entfaltet sich hier eine Seelenreise, ein initiatorischer Pfad auf der Suche nach der wahren, innersten Natur der Figuren, durch deren Verwandlungen hindurch – vom Individuellen zum Universellen –, ohne je einem moralischen Urteil oder Stigma zu verfallen.
Das Geschehen nimmt Gestalt an in einem neutralen, gleichsam anonymen Raum: ein elegantes, unpersönliches Zimmer in einem Luxushotel. Das Bühnenbild – bis ins kleinste Detail durch Michael Levine gestaltet – wird durch die erzählerischen Videos von rocafilm und das betörende Lichtdesign von Franck Evin lebendig. In diesem Raum entfalten sich Geschichten, deren Erzähler niemand Geringeres als Orpheus ist – der Archetyp des poetischen Sängers. Er ruft die Protagonistinnen und Protagonisten herbei, die nacheinander in Erscheinung treten, bevor sie wiederum neuen Gästen Platz machen – in jenem Zimmer, das Orpheus’ Geist durchweht und in welchem er als seelenführende Instanz wirkt.
Nach einem Prolog entspinnt sich eine Folge von Geschichten: Pygmalion, Arachne, Myrrha, Echo und Narziss – Figuren, die an die „Menschen, die kommen und gehen“ erinnern, wie sie in Edmund Gouldings filmischem Meisterwerk Grand Hotel (1932) dargestellt sind.
Angetrieben von Orpheus – und gekleidet in die perfekt gestalteten Kostüme von Klaus Bruns – offenbaren alle ihre innersten Wahrheiten wie in einer psychoanalytischen Sitzung, die jegliche moralische Bewertung suspendiert: Die Ereignisse verlaufen so, wie sie verlaufen müssen, und die Metamorphosen offenbaren schlicht die tiefste Natur der Figuren – ohne Erklärung, ohne Urteil.
Am Ende wird Orpheus selbst von den Mänaden zerrissen und entschwindet, gemeinsam mit Eurydike, in den Schatten des Erebus – in einer letzten Verwandlung.
Die von Kosky erdachte Theatermaschine funktioniert mit narrativen und dramaturgischen Zahnrädern von millimetergenauer Präzision. Wie es eben nur im wahren Theater gelingt, wirken diese Mechanismen zugleich entwaffnend einfach, intuitiv erlebbar und tief miteinander verwoben – über unsichtbare Linien hinweg.
Unverzichtbares komplementäres Element sind die hinreißenden Choreographien von Otto Pichler, die scheinbar aus den Ursprüngen des modernen Tanzes schöpfen – aus der freien, spröden Bewegungssprache einer Isadora Duncan ebenso wie aus der körperlichen Befreiung à la Martha Graham.
Wenn die visuelle Seite den Atem raubt – was heute selten geworden ist: ein Theaterabend, der beglückt und erschöpft –, so steht die musikalische Umsetzung dem in nichts nach.
Gianluca Capuano – der gemeinsam mit dem australischen Regisseur das „Pasticcio“ aus mehr als 250 Arien, geistlichen Werken und Instrumentalkompositionen Vivaldis formte – erreicht eine erstaunliche Homogenität in der Vielfalt. Gemeinsam mit Les Musiciens du Prince – Monaco, die sich in Hochform präsentierten, entfaltet er ein maieutisches Unternehmen, das jede verborgene Nuance zutage fördert, ohne den Blick auf das große Ganze zu verlieren: eine Interpretation von leuchtender narrativer Kohärenz, getragen von exakt gewählten Tempi und einem feinsinnigen Spiel mit Farben und Affekten.
In der Rolle des Orpheus brilliert Angela Winkler, Grande Dame des deutschsprachigen Sprechtheaters, mit einer Darbietung von emotionaler Tiefe und exemplarischer sprachlicher Präzision.
Im vokalen Zentrum steht – wie so oft – Cecilia Bartoli, Genius loci und wahres Bühnenwunder: Ihre Eurydike, zerbrechlich und verzweifelt, steht im Kontrast zur spöttischen Arachne, die Kosky als digitale „Content Creatorin“ imaginiert – verstrickt in das Netz der Kabel ihres Laptops. Bartoli gelingt hier eine ihrer eindrucksvollsten Darstellungen überhaupt.
Nicht minder beeindruckend ist Philippe Jaroussky, in stimmlicher Hochform: Zunächst als nerdiger Pygmalion – direkt aus einer Folge von The Big Bang Theory entsprungen –, später als Narziss, der nicht nur von seiner eigenen Schönheit fasziniert ist, sondern auch eine aufwühlende Selbsterkenntnis seiner Homosexualität erlebt, verkörpert durch seine sinnlichen „Doppelgänger“ Prince Mihai und Rouven Pabst, die ihn überwältigen.
Lea Desandre glänzt in mehreren Rollen mit ihrer wandlungsfähigen Stimme und atemberaubender Agilität: als elfenbeinerne Statue Pygmalions, als inzestuöse Myrrha – hier eine Mischung aus Lolita und der Alice aus Eyes Wide Shut – und schließlich als schillernde Echo.
Ergänzt wird das Ensemble durch Nadezhda Karyazina, deren farbenreiche Stimme und eindrucksvolle Bühnenpräsenz sie zur idealen Verkörperung gleich dreier Rollen macht: als strafende Minerva, als erschütterte Amme Myrrhas und schließlich als majestätische Juno.
Uneingeschränktes Lob gebührt erneut dem Chor Il Canto di Orfeo, einstudiert von Jacopo Facchini, sowie dem hinreißenden Tanzensemble, dessen Mitglieder allesamt einer Nennung würdig sind: Rachele Chinellato, Jia Bao Beate Chui, Martje de Mol, Fanny De-Ponti, Matt Emig, Claudia Greco, Alessio Marchini, Prince Mihai, Rouven Pabst, Teresa Royo, Felix Schnabel und Rens Stigter.
Der Abend endete mit einem triumphalen Erfolg – zehnminütiger, stehender Applaus für eine Aufführung, die zweifellos in Erinnerung bleiben wird als ein Höhepunkt zeitgenössischer Musiktheaterkunst.
La locandina
Direttore | Gianluca Capuano |
Regia e Ideazione | Barrie Kosky |
Coreografia | Otto Pichler |
Scene | Michael Levine |
Costumi | Klaus Bruns |
Luci | Franck Evin |
Video | rocafilm |
Ideazione e Drammaturgia | Olaf A. Schmitt |
Personaggi e interpreti: | |
Eurydice / Arachne | Cecilia Bartoli |
Statua / Myrrha / Echo | Lea Desandre |
Minerva / Nutrice / Juno | Nadezhda Karyazina |
Pygmalion / Narcissus | Philippe Jaroussky |
Orpheus | Angela Winkler |
Les Musiciens du Prince — Monaco | |
Il Canto di Orfeo | |
Maestro del Coro | Jacopo Facchini |
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