Abbandonati il minimalismo e l’acromaticità cari a più di un allestimento del repertorio settecentesco Fabio Ceresa mette in scena uno spettacolo iperbarocco, ricchissimo di particolari, teso ad amplificare fasti passati rivedendoli però attraverso una lettura piena dell’ironia che comunque al Barocco si addice.
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Myung-Whun Chung non potrà dirigere le recite della Bohème programmate al Teatro La Fenice dal 16 al 25 marzo 2018. Il maestro, a causa di un incidente automobilistico occorsogli nei giorni scorsi, è in convalescenza e, su consiglio dei medici, alle imminenti dimissioni dall’ospedale dovrà far seguire un periodo di riposo.
La scelta del Teatro La Fenice per il carnevale si rivela vincente a tutti gli effetti a far principio da un allestimento che fa sorridere ed allo stesso tempo trasmette un senso di malinconia tenera, il tutto nel pieno spirito di Léhar la cui Vedova accompagnò a tempo di valzer e non da sola la declinante Austria Felix verso il baratro.
Un Ballo in maschera è, secondo Gianmaria Aliverta che spiega il suo punto di vista in un’intervista contenuta nel programma di sala, un “dramma politico e passionale”; secondo noi, invece è vero l’esatto contrario, ovvero il Ballo è un dramma passionale e politico.
La Fondazione Teatro La Fenice inaugura la Stagione Lirica e Balletto 2017-2018 con Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi. Il melodramma in tre atti, su libretto di Antonio Somma, torna sul palcoscenico di campo San Fantin a quasi vent’anni dalla sua ultima messinscena veneziana in un nuovo allestimento con la regia di Gianmaria Aliverta, le scene di Massimo Checchetto, i costumi di Carlos Tieppo, le luci di Fabio Barettin e i movimenti coreografici di Barbara Pessina. A guidare l’Orchestra e Coro del Teatro La Fenice sarà il pluripremiato maestro coreano Myung-Whun Chung.
Rapide, febbrili, concitate scorrono le note nel Don Giovanni di Damiano Michieletto. Il regista pone la vicenda in uno sbiadito e livido tardo barocco tra piano fisico e metafisico in cui le ombre, reali e metaforiche, dominano le pareti damascate della scena.
“Che cos’è la dodecafonia? È anche uno stato d’animo” diceva Luigi Dallapiccola, quarto padre della dodecafonia – insieme a Arnold Schönberg, Alban Berg, Anton Webern – e artista tra i più straordinari della storia musicale del nostro Novecento che ha compiuto la sua rivoluzione dodecafonica nello stile italiano.
“Mimi ne abbiamo?”; bianchi e silenti spuntano da ogni dove, seguono con movimenti lenti gli spettatori che cercano il loro posto in una platea semibuia o assumono pose plastiche sul palcoscenico ancora vuoto di musica. Bravi ma tanti, troppi e onnipresenti.
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