Torino: tra chiarezza e passione. Il Lingotto si apre con Brahms e Beethoven

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Torino: tra chiarezza e passione. Il Lingotto si apre con Brahms e Beethoven



«Il primo movimento della Quarta sinfonia di Brahms possiede almeno l’apparenza di vitalità, ma come gli altri tre è segnato da una profonda mancanza di idee». Così sentenziava, il 13 dicembre 1886, il New York Post, in un’uscita che a distanza di oltre un secolo sembra più comica che feroce. Come se non bastasse, il 19 gennaio dell’anno successivo il Musical Courier rincarava la dose: «In questa Quarta sinfonia di Brahms troviamo davvero poco da raccomandare. L’orchestrazione è monotona, spessa, appiccicosa come il caucciù. A Brahms manca l’ampiezza e la forza dell’invenzione necessaria per un grande lavoro sinfonico». Oggi, rileggere tali giudizi non può che suscitare un sorriso: basti ricordare che questa partitura, amata e temuta per la sua complessità, è diventata uno degli indiscussi vertici della letteratura sinfonica ottocentesca.

Ed è proprio per ribaltare, una volta ancora, quelle antiche idiozie che Riccardo Minasi è salito sul podio dell’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto, inaugurando la nuova stagione dei Concerti con la Deutsche Kammerphilharmonie Bremen. Orchestra agile, una cinquantina di elementi, tra le più raffinate del panorama europeo: dal 2004 sotto la direzione artistica di Paavo Järvi, ha inciso integrali di Beethoven e Schumann che hanno fatto storia e ha legato il proprio nome a un approccio cameristico ma non per questo meno incisivo al grande repertorio sinfonico.

Il programma, costruito con intelligenza, prendeva le mosse dall’Ouverture del Freischütz di Weber. Qui Minasi ha privilegiato un tono asciutto, quasi neoclassico, più che indulgere ai vapori protoromantici della partitura. Un’esecuzione elegante, dal passo leggero, come a voler spianare la strada al cuore della serata: Beethoven e Brahms.

Al centro, il Concerto n. 3 in do minore op. 37 di Beethoven, affidato a Beatrice Rana. Opera cruciale nella parabola beethoveniana, composta attorno al 1802, unico concerto pianistico in tonalità minore, già proiettato verso l’“Eroica”. Giorgio Pestelli ha scritto che è qui che Beethoven «per la prima volta rappresenta appieno le sue intenzioni nel campo del concerto pianistico»: non più semplice sfoggio di virtuosismo, ma vera integrazione fra solista e orchestra, con un dramma che coinvolge entrambi.

Rana ha affrontato la partitura con classe impareggiabile. Nel primo movimento ha dominato la tensione eroica senza mai cadere nella declamazione brutale: il suono limpido, la cura dei dettagli dinamici, la precisione del fraseggio hanno dato vita a una lettura intensa ma sempre sorvegliata. Il Largo centrale, sospeso e lirico, è stato reso con indugi e rubati che ne hanno dilatato il respiro, quasi a evocare atmosfere chopiniane. Un Beethoven meditativo, spirituale, fatto di note evanescenti che si sciolgono nell’aria. Nel Rondò finale, invece, è esplosa la vitalità: un turbine brillante, energico, liberatorio, condotto con nettezza e vigore.

Merito anche di Minasi, che ha diretto a memoria, con gesto ampio ed espressivo, plasmando un’orchestra partecipe e mai subordinata: qui l’orchestra non è accompagnamento, ma personaggio drammatico al pari del pianoforte. L’intesa fra i due artisti è stata palpabile: un Beethoven in chiaroscuro, ricco di contrasti e di tensioni, dove virtuosismo e interiorità si fondono senza soluzione di continuità.

Gli applausi insistenti del pubblico strappano alla solista un fuori programma che conferma il tono emotivo della sua visione ma qui con una maggiore concessione all’esibizione virtuosistica: è la trascrizione per pianoforte di Michail Pletnëv dell’Intermezzo dallo Schiaccianoci (1892) di Čajkovskij, come riletto da un Liszt tornato tra i viventi a sei anni dalla morte.

Dopo Beethoven, toccava a Brahms. La Sinfonia n. 4 in mi minore op. 98, composta nel 1885, non è solo l’ultima sinfonia dell’autore, ma anche un testamento sinfonico che raccoglie l’eredità di Bach e Beethoven e la trasforma in architettura ottocentesca. Nel finale Brahms sceglie la via più ardita: una ciaccona di impronta barocca, un tema di otto battute variato per ben 31 volte, in una costruzione di severità quasi ascetica.

Con lo stesso organico con cui ha eseguito pagine del 1802 (Beethoven) e del 1821 (Weber), Minasi affronta ora l’ultima sinfonia di Brahms (1885), che ha diretto recentemente ad Amburgo con l’Ensemble Resonanz, una compagine  di 21 archi, e a Genova, ma qui con l’orchestra del teatro. A Torino ha trovato una dimensione intermedia: né la compattezza cameristica di venti archi, né la monumentalità di una grande orchestra. Ne è scaturita una lettura chiara, nitida, asciutta, che ha puntato sulla trasparenza contrappuntistica e sul senso architettonico più che sull’opulenza sonora.

Il primo movimento, ampio e contrastato, ha preso corpo in una forma-sonata di notevole coerenza: tempi rapidi, transizioni nette, frasi scolpite. Nel secondo, Minasi ha colto il respiro poetico, l’intensità raccolta, con una morbidezza che non sfocia mai nel sentimentalismo. Il terzo, più mosso, in ritmo binario anziché ternario, ha avuto leggerezza ritmica e slancio danzante. E nel finale – vero banco di prova – Minasi ha messo in campo la sua abilità di musicologo e di direttore: ogni variazione è apparsa distinta e leggibile, in un equilibrio costante tra nitidezza e tensione. Non un Brahms travolgente, non il torrente sonoro dei grandi direttori della tradizione tedesca, ma un Brahms intelligente, calibrato, ripensato con amore e lucidità.

La Deutsche Kammerphilharmonie Bremen ha risposto con suono compatto e colori ben dosati: gli archi tersissimi, i legni trasparenti, gli ottoni precisi. Una sinfonia eseguita non come un blocco monumentale, ma come un mosaico di idee e di forme, in cui ogni tessera trova il suo posto.

Per sciogliere la tensione brahmsiana, Minasi ha scelto un bis sorridente: l’Ouverture in stile italiano D. 591 di Schubert, piccolo gioiello rossiniano travestito da viennese. Un brano leggero e scintillante, perfetto per salutare il pubblico con un sorriso.

E proprio qui si è rivelata anche la simpatia del direttore: quando un applauso intempestivo è partito in mezzo all’esecuzione, Minasi ha reagito con ironia, guadagnandosi ancor più la complicità della sala.

Così, tra Weber, Beethoven, Brahms e Schubert, il concerto inaugurale del Lingotto ha confermato la statura di due protagonisti: Beatrice Rana, pianista capace di coniugare perfezione tecnica e profondità poetica, e Riccardo Minasi, direttore che illumina le partiture con chiarezza, rigore e passione. E ha dimostrato, una volta di più, quanto fossero miopi e ingenerose le antiche stroncature della critica americana: la Quarta di Brahms, lungi dall’essere monotona e «senza idee», resta una delle più luminose cime del sinfonismo ottocentesco.

Renato Verga
(2 ottobre 2025)



La locandina

Direttore Riccardo Minasi
Pianoforte Beatrice Rana
Die Deutsche Kammerphilharmonie Bremen
Programma:
Carl Maria von Weber
Ouverture da Der Freischütz
Ludwig van Beethoven
Concerto per pianoforte e orchestra n° 3 in do minore op. 37
Johannes Brahms
Sinfonia n° 4 in mi minore op. 98

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