Venezia: il metateatro di Scipione nelle Spagne

Opere, Serenate, Azioni, Feste. Nella Vienna di primo Settecento, dopo un secolo di vita, il melodramma – o almeno quello che si scriveva e si metteva in scena per la Corte asburgica e intorno ad essa – poteva cambiare nome ma raramente accantonava un taglio gratulatorio, encomiastico e dunque in quanto tale implicitamente politico. Del resto, la consuetudine era che in questo modo, con rappresentazioni di teatro per musica anche formalmente di varo tipo, venissero celebrati anno dopo anno i compleanni e gli onomastici dell’imperatore e dei componenti della sua famiglia, per non parlare delle occasioni speciali come i matrimoni. O delle situazioni politico-militari in cui la propaganda – per usare un termine novecentesco tornato prepotentemente alla ribalta – poteva e doveva passare anche attraverso una drammaturgia musicale magari evanescente ma sicuramente a chiave, trasparente nell’esaltazione del sovrano o del condottiero di turno.

Uno dei maggiori protagonisti di questo particolare mercato operistico era un compositore veneziano, Antonio Caldara, larga parte della cui vastissima produzione per la scena (ben oltre la settantina di titoli) è collegata alla sua attività di vice maestro della Cappella imperiale di Vienna. D’altra parte, il titolare, il dottissimo Johann Joseph Fux, non godeva di buona salute e dunque toccava al veneziano sbrigare il grosso del lavoro. Con il singolare dettaglio che in fondo Caldara, una salda quanto raffinata formazione affinata probabilmente con Giovanni Legrenzi e non pochi anni di servizio giovanile in San Marco, veniva dalla città nella quale l’opera era diventata pubblica ed era destinata a un pubblico pagante. Una situazione agli antipodi di quella viennese, nella quale, fra l’altro, i problemi (e i rovesci) economici delle gestioni impresariali erano impensabili: l’imperatore del Sacro Romano Impero era per definizione solvente.

Ma Caldara non era l’unico veneziano in posizione di grande rilievo a Vienna, in quel periodo. C’era anche il suo quasi coetaneo (entrambi erano nati verso il 1670) Apostolo Zeno, letterato ed erudito che intratteneva rapporti epistolari con i migliori ingegni italiani del suo tempo (compreso Ludovico Antonio Muratori).  Zeno aveva accettato l’incarico di poeta cesareo offertogli da Carlo VI solo dopo lunghe insistenze, ottenendo un trattamento economico straordinario e pretendendo anche che gli fosse riconosciuta la qualifica di storico.

In precedenza, prima di trasferirsi a Vienna, aveva scritto un dramma intitolato Scipione nelle Spagne, rappresentato nel 1710 a Barcellona con la musica di un autore di cui non si conosce il nome. In quel momento era in pieno svolgimento la Guerra di successione spagnola e l’imperatore d’Austria aveva assunto anche la corona di Spagna. Il libretto illustra la magnanimità del condottiero romano in una complicata e un po’ meccanica vicenda di amori intrecciati e rinunce più o meno virtuose, ed è trasparente l’encomiastica allusione a Carlo VI. Lo stesso libretto fu musicato a Vienna da Caldara nel 1722 e l’opera fu rappresentata al Teatro di Corte alla presenza dello stesso sovrano: una sorta di “laudatio” ex post, evidentemente ben gradita e in qualche modo “dimostrativa”, visto che la guerra era finita da otto anni e da sette l’imperatore aveva dovuto rinunciare al regno iberico. È di quest’opera mai più rappresentata, a tre secoli esatti dal suo debutto, che si è occupato quest’anno il benemerito Progetto Operastudio del Conservatorio Benedetto Marcello, in collaborazione con la Fenice. In concomitanza si è tenuto anche un importante convegno internazionale di studi.

Dopo lo scavo rivelatore nella produzione di Tomaso Albinoni, condotto negli anni scorsi da Francesco Erle e proposto in rappresentazioni per così dire tradizionali, quest’anno il lavoro ha assunto un aspetto di singolare novità anche nelle sue coordinate teatrali. Al Malibran, infatti, più che una versione riveduta e ridotta dell’opera originale, è andato in scena un vero e proprio progetto drammaturgico autonomo, realizzato da Francesco Bellotto, il coordinatore di Operastudio. Di fatto, lo spettacolo offriva da un lato una presentazione della partitura ampiamente sottoposta a tagli musicali e “cucita” con la peraltro indispensabile partecipazione di un personaggio nuovo, affidato a un attore, per chiarire lo svolgimento della trama e riassumere il non sentito. E dall’altro era costruito in modo da fornire un’interpretazione registica dell’opera, firmata dallo stesso Bellotto, volta a chiarire la sua funzione di esaltazione dell’imperatore asburgico. Tutti i protagonisti del melodramma, infatti, agivano come marionette, dentro a un teatrino dalle allusioni architettoniche classicheggianti (le scene portavano la firma di Alessia Colosso, i costumi, suggestivi e appropriati, di Carlos Tieppo): uno spettacolo dentro allo spettacolo, diretto dallo stesso attore cui tocca alla fine il compito di incoronare Scipione, personaggio che in locandina ha la definizione di “direttore della propaganda imperiale”.

Dunque, una rappresentazione meta teatrale anche sofisticata, se è vero che l’attore recitava parole in perfetto stile rispetto alla lingua di Apostolo Zeno: testi tratti dal libretto stesso, ma anche dal dramma in prosa dell’autore secentesco Giovan Battista Boccabadati, lo Scipione (1693) che era stato fonte del librettista veneziano; e financo citazioni dai Capitoli del Macchiavelli. Un gioco di specchi letterario che portava l’opera in una duplice dimensione rappresentativa, quella del suo sviluppo sulla scena e quella della percezione da parte del pubblico in sala.

In questo contesto, la partitura di Antonio Caldara dopo un inizio un po’ disorientante, nel quale sembrava ridotta quasi a “colonna sonora”, ha progressivamente assunto il suo ruolo centrale, sia sul piano strettamente musicale che su quello drammaturgico. Musica di abilissima fattura e di grande scuola, con linee melodiche e raffinatezze timbriche a volte di grande suggestione. Basti dire dell’Aria con violoncello obbligato in orchestra (ottimo Federico Toffano), nella quale evidentemente il musicista si riallaccia in certo modo gli anni della sua formazione, visto che negli organici di San Marco era stato anche violoncellista. Quanto alla vocalità, assai sciolto è il rapporto con la scrittura strumentale, mentre la strada del virtuosismo belcantistico è percorsa con attenzione, senza esagerazioni ma con una sorta di accentuazione man mano che ci si avvicina alla conclusione.

Il tutto è stato governato con la passione e la consapevolezza stilistica che sono i caratteri del fare musica di Francesco Erle. Sotto la sua guida, l’Orchestra barocca del “Benedetto Marcello”, con Enrico Parizzi primo violino e tutor, ha acquisito sicurezza e qualità di suono dopo un inizio forse emozionato, trovando alla fine lo splendore timbrico richiesto dalla grande Aria di guerra di Trebellio, con accompagnamento di trombe naturali e timpani.

La compagnia di canto – molto impegnata non sempre con risultati ottimali nei movimenti di marionetta richiesti dalla regia – era costituita dai vincitori delle selezioni del Master di produzione teatrale del Conservatorio veneziano e si è fatta apprezzare specialmente per la pertinenza stilistica dell’approccio. Interessante il colore di Miao Tang nel ruolo di Sofonisba e di Anqi Huang nei panni del suo amante Luceio. Piuttosto flebile per quanto corretto nella linea di canto è parso Yihao Duan nel ruolo del titolo, mentre Ying Quan è stata un’Elvira di buon approccio brillante e Tianhong Xi un Cardenio di apprezzabile intensità. Oltre a loro, in buona evidenza anche sul piano della coloratura Rundong Liu (Lucio Marzio) e Ziyang Meng (Trebellio). Marco Ferraro, in impermeabile come un agente dei servizi dei nostri giorni (in cui la propaganda di vari poteri “imperiali” la fa purtroppo da padrona) si è proposto con l’ironico distacco necessario alla sua parte.

Alla rappresentazione cui abbiamo assistito, festante il pubblico di studenti cui era in larga parte riservata.

Cesare Galla
(26 maggio 2022)

La locandina

Direttore Francesco Erle
Regia Francesco Bellotto
Scene Alessia Colosso
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Andrea Benetello
Personaggi e interpreti:
Publio Cornelio Scipione Yihao Duan
Sofonisba Miao Tang
Elvira Ying Quan
Luceio Anqi Huang
Cardenio Tianhong Xi
Lucio Marzio Rundong Liu
Quinto Trebellio Ziyan Meng
Il direttore della propaganda imperiale Marco Ferraro
Orchestra barocca del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia
Primo violino e tutor Enrico Parizzi

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