Venezia: nel Rinaldo trionfa il Classico

La cronaca deve per forza cominciare dalla fine. Dopo che la valorosa compagnia di canto che ha dato vita al Rinaldo di Händel alla Fenice ha già raccolto molti convinti applausi, destinati pure al direttore d’orchestra Federico Maria Sardelli, compare a proscenio il regista, Pier Luigi Pizzi. Gli applausi diventano ovazione, anzi, standing ovation. E il regista milanese, 91 anni compiuti lo scorso 15 giugno, fa una cosa che neanche molti suoi colleghi ben più giovani fanno spesso: al centro della fila di tutti i protagonisti dello spettacolo che si tengono per mano, guida una giocosa corsa dal fondo del palco fino al proscenio, le braccia alla fine levate in segno di giubilo. Accade una volta, due, tre: una scena indimenticabile, che la dice lunga sulla gioia di fare ed essere teatro di questo maestro.

In effetti, l’occasione era particolare. Parafrasando un titolo handeliano, si potrebbe dire che quello che si è visto alla Fenice martedì sera (e si potrà ancora vedere giovedì e sabato: consigliatissimo) è stato il Trionfo dell’Opera Barocca. O anche, sulla falsariga del titolo di una raccolta di saggi di un grande specialista del teatro musicale settecentesco (ma non solo) come Francesco Degrada, si potrebbe osservare che pochi spettacoli come lo storico allestimento che Pizzi realizzò di Rinaldo in occasione dell’Anno Europeo della Musica 1985 rivelano così chiaramente come il melodramma sia davvero un “Palazzo incantato”.

E poi, bisogna aggiungere che l’evento andava in controtendenza, rispetto alla sempre più frequente propensione dei teatri a riesumare spettacoli carichi di anni oltre che di gloria. Spesso, in questi casi, viene sia pure rispettosamente utilizzato il termine “datato”. Perché la regia d’opera ha conosciuto negli ultimi decenni un’evoluzione tale da rendere la maggior parte dei linguaggi rappresentativi d’epoca, che a suo tempo hanno fatto la fortuna dei grandi allestitori, significativi più sul piano della storia dello spettacolo che per la capacità di coinvolgere gli spettatori del tempo presente.  Per Rinaldo secondo Pizzi, queste limitazioni non si danno. Concepita 36 anni fa per il teatro di Reggio Emilia e salutata subito come un capolavoro (il che ne ha garantito una lunga e importante presenza un po’ in tutto il mondo) questa regia – già transitata alla Fenice nel giugno del 1989 – afferma perentoriamente una sorta di universalità che non si riesce a definire in altra maniera che “classica”.

Il segreto di questa assolutezza consiste nella forza delle immagini che sembrano letteralmente promanare dalla musica di Händel, regalando allo stesso tempo un “filo rosso” drammaturgico (dentro a un’opera che in realtà lo perde spesso perché è soprattutto un formidabile veicolo dell’invenzione – e delle rielaborazioni da musiche proprie e altrui – del compositore sassone) e una sorta di rivisitazione della barocca “maraviglia” delle invenzioni sceniche, che nell’opera italiana (e in questa in particolare) erano parte fondamentale.

Gli elementi del discorso rappresentativo sono tutti squadernati fin dall’inizio. Nessun personaggio si muove autonomamente, tutti sono “trasportati” sopra quelli che Pizzi (come sempre autore anche di scene e costumi) definisce “carri”, ovvero supporti lignei che vengono mossi da schiere di “servi di scena” – mimi bravissimi – che assicurano una musicale dinamicità alla rappresentazione nonostante i suoi protagonisti siano più che altro impegnati nella gesticolazione, peraltro in ben delineato stile barocco. La gestualità viene amplificata dall’incessante movimento dei loro mantelli-veli, a cui corrisponde per lunghi tratti (specie nel secondo atto, ma anche nel terzo) un effetto-mare a cui basta, per affascinare poeticamente, il movimento incessante dell’onda determinata dallo scuotimento controllato di un singolo lungo velo che attraversa tutta la scena. Quasi tutto dunque avviene a vista, con effetti allo stesso tempo di magica semplicità e di formidabile intensità suggestiva, per la quale hanno un ruolo determinante da un lato i costumi, di fulgore, fantasia ed eleganza senza pari, dall’altro le luci (curate in particolare da Massimo Gasparon), fondamentali nel costruire lo spazio scenico.

Le macchine sceniche diventano fastosa proiezione immaginifica nel secondo atto – con il monumentale volto demoniaco incorniciato da mani adunche che rappresenta il palazzo della maga Armida e a sua volta si apre e si chiude sospinto dai mimi – e hanno il loro clou nel terzo atto. Qui, tutti i protagonisti sono quasi sempre a cavallo e si incontrano-scontrano in frementi e velocissime battaglie che ancora una volta corrispondono mirabilmente alla natura squisitamente plastica dell’invenzione di Händel, prodigo in quest’opera del suo debutto londinese anche di pagine solo strumentali oltre che di Arie di squisita fattura, spesso con accompagnamenti concertanti affidati a strumenti in “a solo”, dall’oboe al flauto, dal cembalo al fagotto e alle trombe.

Nato come “arrangiamento” (così Pizzi) fra la versione iniziale del 1711 e la rielaborazione del 1731, il Rinaldo è stato proposto in questa versione anche nella sua ripresa più recente (l’anno scorso a Firenze e in questi giorni alla Fenice), perché c’è una filologia anche per quanto riguarda gli spettacoli storici. L’interpolazione riguarda varie Arie – fra aggiunte e soppressioni – ma risulta fluida ed efficace. Ne esce un Rinaldo in sintesi, due ore di musica superba: così poteva avvenire anche nel primo Settecento, se è vero che di recente la Zenobia di Albinoni (1694) è stata proposta al Malibran secondo una “copia d’uso” esistente alla Library of Congress che è l’unico manoscritto rimasto di quest’opera e porta, vedi caso, a una durata analoga.

Sarebbe del tutto inutile, invece, avventurarsi in comparazioni fra la compagnia di canto ascoltata ieri sera e quella dell’unico precedente alla Fenice, risalente come si diceva al mese di giugno del 1989. Quel cast stellare – in cui spiccava Marilyn Horne nel ruolo del titolo, circondata da Ernesto Palacio, Cecilia Gasdia e altri specialisti di primo piano – appartiene alla storia del belcanto nella seconda metà del XX secolo ed ha tutti i crismi dell’occasione unica e irripetibile.

Trent’anni non sono passati invano neanche nel mondo della vocalità applicata all’opera del Settecento: tutti i cantanti in scena alla Fenice da questo punto di vista hanno fatto valere scuola e talento, il che significa linee di canto dalla puntuale e accorta definizione stilistica, agilità ben tornita, gusto raffinato non disgiunto dalla forza espressiva. Nel ruolo del titolo, Teresa Iervolino ha messo in vetrina il suo bel timbro, l’acuminata precisione nella coloratura, la coinvolgente forza delle variazioni nei “da capo”, una ricchezza di accenti che è andata aumentando nel corso della serata dopo la tensione dell’inizio, delineando bene il carattere “anfibio” del protagonista, guerriero un po’ troppo incline alle avventure di cuore. Svettante Armida è risultata Maria Laura Iacobellis, soprano dal colore nitido e dalla grande facilità sull’acuto, non separata dalla sottigliezza delle dinamiche, mentre nel ruolo della suadente Almirena, Francesca Aspromonte ha avuto soprattutto sul versante patetico buon gioco nel fare risaltare la sua voce morbida ed elegante. Leonardo Cortellazzi è stato un Goffredo sicuro e di bel colore tenorile.

Il basso Tommaso Barea, chiamato all’ultimo al ruolo a causa di un’indisposizione del cantante designato, ha risolto con incisiva agilità la parte del re di Gerusalemme Argante, offrendo notevole nobiltà espressiva a un personaggio singolarmente contradditorio, diviso com’è fra l’amore per Armida e l’infatuazione erotica per Almirena. Positivi anche William Corrò (il mago cristiano) e Li Shuxin (un araldo), mentre una citazione particolare meritano Valentina Corò e Marilena Ruta, che hanno realizzato con seducente dolcezza l’Aria delle Sirene, di fatto un tema di canzone popolare napoletana probabilmente ascoltata dal compositore ancora nel 1707 (così ipotizza Lorenzo Bianconi) che nella ricchissima partitura è una gemma fra le gemme.

Federico Maria Sardelli ha tenuto le fila dell’esecuzione raggiungendo un impeccabile equilibrio fra il sontuoso apparato strumentale e il gruppo delle voci in scena. La sua lettura è parsa ben tornita, pronta allo scatto dinamico e anche all’accelerazione nei tempi in chiave espressiva, senza tuttavia mai trascurare l’istintiva, naturale tendenza handeliana a scolpire la frase con grande energia implicitamente teatrale. Lo hanno seguito ammirevolmente gli strumentisti della Fenice, accomunati alla fine dal direttore nel successo.

Cesare Galla
(31 luglio 2021)

La locandina

Direttore Federico Maria Sardelli
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Assistente alla regia Massimo Gasparon
Personaggi e interpreti:
Rinaldo Teresa Iervolino
Goffredo Leonardo Cortellazzi
Almirena Francesca Aspromonte
Armida Maria Laura Iacobellis
Argante Tommaso Barea
Mago cristiano William Corrò
Un araldo Shuxin Li
Donna/Due sirene Valentina Corò, Marilena Ruta
Orchestra del Teatro La Fenice

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