Verona: Don Pasquale dai caratteri di Donizetti a quelli di Antonio Albanese

Forse è un caso, forse no. Sta di fatto che i cauti approcci di Antonio Albanese alla regia lirica – un paio in tutto nell’arco di un decennio – sono sempre stati nel nome di Gaetano Donizetti e del suo stile buffo, prima con Le convenienze ed inconvenienze teatrali (Teatro alla Scala, 2009) e poi con Don Pasquale (Teatro Filarmonico, 2013). Titoli sintomatici, per quanto riguarda il suo sguardo sulla vita che si riflette in scena: il primo è una brillante quanto impietosa satira sugli usi e gli abusi del mondo operistico, il secondo una commedia di maniera che riesce a diventare rivelatoria attraverso la sottile malinconia che contraddistingue suo malgrado il personaggio eponimo, nascosta fino a un certo punto dalla caricatura musicale, poi scoperta e quasi sconcertante. Come disse a suo tempo Albanese: «La comicità come strumento per svelare verità profonde altrimenti drammatiche».

Dopodiché, a prescindere dal compositore bergamasco, sembra per il momento abbastanza evidente che il geniale autore-attore-regista non abbia con l’opera, in senso generale, un rapporto particolarmente simpatetico, nonostante la sua evidente attenzione per la musica sia sulla scena che sul set. In attesa di essere smentiti da qualche sua nuova iniziativa, si deve riparlare di Albanese come regista operistico per la ripresa dello spettacolo veronese, proposto come terzo titolo della presente stagione al Filarmonico. Rivisto dopo sei anni, questo Don Pasquale (regia ripresa da Roberto Maria Pizzuto, scene di Leila Fteita, costumi di Elisabetta Gabbioneta, luci di Paolo Mazzon) conferma la sua cifra teatrale misurata e meditata, orientata a lavorare essenzialmente sui personaggi senza alcuna esagerazione farsesca, ma privilegiando una recitazione quasi naturale, che ha il pregio di affidare principalmente alla musica la caratterizzazione e l’evoluzione psicologica di ciascuno. L’elemento “site specific” (ovvero la scelta di fare del protagonista una sorta di imprenditore del vino, che al primo atto si aggira in una grande cantina e alla fine scopre di essere stato crudelmente gabbato in un giardino che è una piccola vigna piena di fiori) rimane in questa lettura un elemento decorativo collaterale e non troppo invasivo, anche se in vari momenti lo spettacolo perde un po’ il carattere di “interno borghese” tipico di quest’opera, sottolineato davvero solo nel secondo atto.

Sul podio è salito Alvise Casellati, debuttante nel titolo, che ha scelto una linea interpretativa mediana, di moderata nitidezza, caratterizzata da un fraseggio puntuale, senza esagerazioni nei tempi e nei colori, e da qualche positiva attenzione per gli squarci sentimentali e drammatici che attraversano la partitura.  L’orchestra della Fondazione Arena lo ha seguito con accortezza e buona precisione.

Brillante la compagnia di canto, sempre nel registro di una comicità soffusa, non troppo estroversa, che accomunava la regia di Albanese e la direzione di Casellati. Carlo Lepore ha sciorinato nel ruolo del titolo una linea di canto duttile e ben timbrata, mai caricaturale, accompagnata da una presenza scenica a tutto tondo pur senza alcuna gigioneria, come si conviene a un personaggio complesso e in fondo tormentato, oltre le sue ingenue illusioni. Al suo fianco, Federico Longhi è stato un Dottor Malatesta di colore forse un po’ troppo chiaro ma di sicura scelta stilistica e di apprezzabile musicalità nei concertati. Un’estroversa Norina dal timbro limpido e dall’agilità assai espressiva è stata Ruth Iniesta, che non si sottrae agli exploit in sovracuto, a rischio di qualche “sbiancatura”, ma soprattutto trova il giusto equilibrio fra i compositi caratteri della sua parte: sentimentale ma con leggerezza ed eleganza, caricaturalmente perfida ma senza troppo prendersi sul serio. E il punto migliore della sua interpretazione, anche scenicamente, è il conflitto interiore che la coglie, peraltro brevemente, dopo avere assestato a Don Pasquale un sonoro ceffone: consapevole di avere esagerato, costretta dalla finzione a non recedere.

Un bel timbro limpido a servizio di una linea di canto energica e incisiva, con notevole controllo nella zona alta della tessitura, ha messo in evidenza il tenore Matteo Falcier, Ernesto, che ha delineato un “amoroso” non troppo fatuo nella sua ingenuità.

Alessandro Busi ha dato scena e voce adeguate al notaro complice nell’inganno, il coro istruito da Vito Lombardi si è disimpegnato nel terz’atto con accortezza anche divertita, quando è stato chiamato a letteralmente invadere la platea prima del finale. Il che peraltro – all’interno dello spettacolo – non è sembrato in alcun modo necessario.

Pubblico folto, cordiale negli applausi a scena a aperta e alla fine, stranamente incurante delle buone maniere: a ogni inizio d’atto sono occorsi lunghi minuti di musica prima che si spegnesse un insistente brusio.

Cesare Galla
(28 febbraio 2019)

La locandina

Direttore Alvise Casellati
Regia Antonio Albanese
Scene Leila Fteita
Costumi Elisabetta Gabbioneta
Lighting design Paolo Mazzon
Personaggi e interpreti:
Don Pasquale Carlo Lepore
Dottor Malatesta Federico Longhi
Ernesto Matteo Falcier
Norina Ruth Iniesta
Un notaro Alessandro Busi
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Arena di Verona
Maestro del Coro Vito Lombardi

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