Vicenza: VOCES8. Cinque secoli di meraviglie vocali

Prima i fatti e poi le opinioni. La prima constatazione è che il Quartetto di Vicenza ha oggettivamente iniziato con due botti: senza contare l’Orchestra del Teatro Olimpico che ha pur sempre aperto con la “Romantica” di Bruckner diretta da Alexander Lonquich, la settimana scorsa il Comunale di Vicenza ha ospitato la Camerata Salzburg, cioè un’orchestra da camera (sia detto totalmente senza enfasi) di portata mondiale, per una serata che da molti sarà ricordata come indimenticabile; col secondo appuntamento, gli oltre novecento posti del teatro di Vicenza erano esauriti in prevendita per l’ottetto vocale inglese Voces8 che apriva così il proprio tour internazionale del ventennale di attività. Si aggiunga, giusto per informazione, che per il terzo, prossimo appuntamento, il Quartetto ha invitato Bruce Liu, il pianista sino-franco-canadese che tre anni fa ha vinto lo Chopin di Varsavia (sappiano gli appassionati di pianoforte che verrà a interpretare, fra le altre, la quarta Sonata di Skrjabin e la settima di Prokofiev).

Riempire la sala maggiore del Comunale (e lasciar fuori diverse richieste) non è semplice per nessuno. Se, come effettivamente è stato, è successo l’altra sera per Voces8, significa due cose: 1) il gruppo è davvero un’icona mondiale della vocalità “a cappella”, al di là dei generi, degli stili e del tipo di tecnica; 2) il Vicentino e il Veneto continuano a essere un territorio fecondo e florido come pochi altri in Italia, nel campo della coralità, anche colta, tanto da muovere un pubblico che, così numeroso, ai meno attenti potrebbe sembrare inopinatamente invisibile.

I Voces8 (chiamiamoli al plurale, che fa più rock) sono considerati gli eredi e, in certo qual senso, la versione diciamo più aggiornata e quindi, inevitabilmente, più popular, dei King’s Singers.

Per questa tournée celebrativa, i Voces8 si sono presentati – oltre che con problemi di valigie non atterrate, che hanno colpito segnatamente proprio il direttore del gruppo, il controtenore Barnaby Smith, unico sul palco in scarpe da ginnastica – con un programma che era una specie di pot-pourri/greatest hits e che copriva, letteralmente, quasi cinque secoli di storia della musica, dal fiammingo Orlando di Lasso ai nostri contemporanei, vivi e attivi, mettendo insieme le chansons polifoniche del XVI secolo alle canzoni pop del XX.

La prima, incontestabile peculiarità dei Voces8 è che loro sono un gruppo e agiscono come tale perché – non sembri scontato – la qualità del gruppo viene, e di grand lunga, prima delle qualità dei singoli. Ognuno di loro ha pregi vocali molto alti ma tutto sommato non eccelsi, tanto che molti, fra i più esigenti dei coristi presenti fra il pubblico, possono alla fine pensare di essere di fronte a un gruppo fuori quota ma forse non impossibile da emulare (poi non importa se fra il pensare e il fare ci sia largo il mare). Le linee basse addirittura poco si sentono; quelle acute non fanno comunque tremare i led. Ma è il suono d’insieme che conta, specie se si considera che gli arrangiamenti privilegiano le parti strette, a volte quasi a blocchi situati nei registri di mezzo.

Su questa base, i Voces8 hanno scelto una loro linea di condotta che diventa il loro punto di forza: un approccio cameristico, con un certo contegno molto apollineo, in qualche modo molto “inglese” (e in ciò erano perfettamente in linea le loro presentazioni e le loro battute, per l’appunto english, tutt’altro che latine). In questo senso, un tipo di sala come la Maggiore del Comunale (per quanto concretamente migliorata negli ultimi anni e sotto molti punti di vista) non è il massimo per un tipo di ottetto a cappella che lavora in acustico e tutto sulla raffinatezza dei colori pastelli, specie, come si diceva, nelle parti interne.

Punto di forza/punto di debolezza. Questa idea della musica, resa perfettamente anche grazie alle scelte di un repertorio mai linguisticamente complicato e non meno da parte dell’arrangiatore principale, Jim Clements (un’autorità in materia), è sicuramente una prerogativa e un timbro di successo se tarata su un certo tipo di pubblico: quello, diciamo, classico-leggero, che ama appunto il repertorio classico ma anche e persino di più il Bach leggero degli Swingle Singers (in programma con una bourrée dalle Suites inglesi). Può essere, al contempo, anche una debolezza? Sì, perché tutto è relativo e dipende dalle attese: se per ottemperare a questa scelta “cameristica”, si rinuncia di fatto a muovere le dinamiche, il repertorio è evocativo ma inevitabilmente semplificativo (d’altra parte la nota Variazione 9, Nimrod, di Elgar è nata per orchestra sinfonica e il pubblico del Quartetto, memore di Pappano, ben lo sa) e il ritmo non prende realmente mai il sopravvento, nemmeno quando lo swing e il groove lo chiederebbero, allora il rischio c’è.

In fondo, i Voces8 sono a loro modo unici perché si presentano con le loro proprie autentiche radici (O Clap Your Hands di Orlando Gibbons dell’Inghilterra elisabettiana) e finiscono con le radici della canzone d’oggi (Slap That Bass di George Gershwin). In mezzo, con nonchalance, ci mettono tanto una hit rock come Fever di Otis Blackwell, quanto un salmo di Mendelssohn, un Ubi Caritas neoclassico del norvegese Ola Gieilo, quanto un raffinatissimo arrangiamento di The Sound of Silence di Simon & Garfunkel (e di Dustin Hoffman nel “Laureato”), prima di finire (dopo, appunto, Di Lasso e Bach ed Elgar elegantemente alleggeriti quasi quanto Cheeck to Cheek) con Fly Me to The Moon che, in forma di bossa nova da salotto, ci ricorda Quincy Jones, Frank Sinatra e Count Basie.

Tutto troppo raffinato? Non ci basta? Vogliano di più? Un digestivo? No, impossibile.

Riccardo Brazzale
(25 novembre 2025)

La locandina

VOCES8
Programma:
Musiche di:
Orlando Gibbons, Arvo Pärt, Sergej Rachmaninov, Jake Runestad, Paul Smith, Ola Gjeilo, Felix Mendelssohn, Caroline Shaw, Edward Elgar, Enya, Kate Rusby, Ben Folds, Thomas Weelkes, Orlando Di Lasso, Paul Simon, Don McLean, Hamlisch & Bayer e George Gershwin

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