Venezia: il re pastore, Mozart spicca il balzo oltre l’Arcadia

Nato in circostanze quanto mai auliche – una rappresentazione alla corte di Vienna nel 1751, protagonisti un gentiluomo e quattro dame versati nel canto –, nella seconda metà del Settecento Il re pastore di Metastasio ha avuto nella figura dell’arciduca Massimiliano di Asburgo-Lorena un singolare “testimonial” suo malgrado. Non tanto per le politiche illuminate e riformiste, ovviamente pur sempre conservatrici e autoritarie, che il sedicesimo e ultimo figlio di Maria Teresa d’Austria seppe interpretare come arcivescovo di Colonia (l’ultimo nella storia a essere principe elettore del Sacro Romano Impero), in sintonia con un libretto nel quale si legge che compito di un sovrano è realizzare “la giustizia, il decoro, il bene altrui, la ragione, il dover”. Ma per il fatto che la combinazione di varia musica con i versi metastasiani ha segnato il suo affacciarsi al mondo e il suo passaggio nell’età adulta. Una versione del Re Pastore, quella firmata dal cavaliere Willibald Gluck, salutò la sua nascita l’8 dicembre 1756. Diciott’anni più tardi, nel mese di aprile del 1775, mentre era in viaggio da Vienna per l’Italia, la tappa di Salisburgo fu corredata con altre note su quei versi, quelle griffate dal suo quasi coetaneo Mozart, fiore all’occhiello della cappella musicale dell’arcivescovo Colloredo, nato una decina di mesi prima dell’illustre ospite d’onore. In quell’occasione, peraltro, il padrone di casa fece valere la sua idiosincrasia per le cose troppo lunghe (secondo lui), anche nella musica: i tre atti divennero due, per le probabili cure dell’abate Varesco, che di lì a poco avrebbe messo mano al libretto dell’Idomeneo. E non si realizzò nemmeno uno spettacolo, ma un’esecuzione oratoriale, forse semiscenica, puntando semmai sulla qualità dell’esecuzione, con due musicisti di nome fatti venir apposta da Monaco: un famoso sopranista per la parte di Aminta, Tommaso Consoli, e un virtuoso del flauto.

Mentre Il re pastore di Gluck, salvo errori, non è mai giunto su un palcoscenico moderno, quello di Mozart ha una sua piccola storia di rappresentazioni, alle quali si aggiunge ora quella che la Fenice propone a completare il piccolo e culturalmente sofisticato “dittico mozartiano” della sua stagione (l’altra parte è Il Sogno di Scipione al Malibran, di cui abbiamo parlato la settimana scorsa) e ad ulteriormente sanare una mancanza, visto che – come nel caso del Sogno – mai prima quest’opera si era vista a Venezia.

Storia in cui il potere legittimo trionfa sulle avventure tiranniche grazie alla magnanimità di Alessandro Magno, che non si fa giudice dei sentimenti nonostante la ragion di stato e avalla quindi i legami naturali dei personaggi che lo circondano, Il re pastore viene raccontato dal regista Alessio Pizzech in chiave cronologicamente astratta, ma non priva di evidenti richiami all’attualità, con la collaborazione per le scene di Davide Amadei e per i costumi di Carla Ricotti. Il pastore Aminta, vittima inconsapevole di usurpazione del trono, vive in mezzo al deserto, in una sorta di pullmino scassato e non più in grado di viaggiare, adattato a camper. L’elemento agreste è centellinato: una pianta frondosa che sbuca dai finestrini. In mezzo al verde si trova invece l’accampamento di Alessandro, ma le sue scelte a rischio di soffocare l’amore di Aminta per Elisa e del suo fedele vassallo Agenore per Tamiri, figlia del tiranno sconfitto, fanno cadere tutte le foglie dell’albero. Solo la saggia decisione di non ostacolare le due coppie determinerà una meravigliosa fioritura dell’alberello stecchito. Il simbolismo è evidente, talvolta anche scontato, ma non disturba uno spettacolo leggero a preciso, egregio nell’accurata recitazione dei personaggi e nelle loro controscene, solo un po’ troppo caricato verso la fine con l’invadente presenza di un gruppo di dignitari un po’ caricaturali. L’elemento più attuale è il modo in cui Pizzech disegna il personaggio di Tamiri: una vera e propria profuga, che si trascina dietro una pesante valigia. Si scoprirà alla fine che contiene la spada con cui pensa di vendicarsi di Alessandro. Nulla che sia nel libretto, ma dentro allo spettacolo funziona e serve a irrobustire la drammaturgia di Metastasio senza tradirla. Come funziona la scelta di fare della reale gravidanza dell’interprete del personaggio un ulteriore elemento di pathos.

Compagnia di canto di alto livello. Roberta Mameli, Aminta, ha voce morbida ed espressiva, equilibrata al meglio in tutte le zone della tessitura, capace di passaggi di registro fluidi ed espressivi. Un bel legato dentro al suo timbro chiaro e squillante ha messo in mostra Elisabeth Breuer, l’innamorata del pastore, mentre Silvia Frigato è stata una Tamiri introspettiva, a suo agio nella coloratura e capace di un fraseggio di adeguata espressività; il fatto di essere in dolce attesa non sembra avere condizionato la sua vocalità sorvegliata e matura. Note solo positive anche per le parti tenorili: Juan Francisco Gatell ha dato ad Alessandro il decoro brillante e la illuminata sapienza del personaggio, grazie a una linea di canto duttile e ben timbrata, mentre Francisco Fernández-Rueda ha reso in bella evidenza il sofferto dissidio interiore di Agenore. Tutti i cantanti hanno risolto i recitativi (e ce ne sono un paio di accompagnati dall’orchestra di particolare pregnanza) con apprezzabile intensità dentro alla parola, elemento decisivo di un’accortezza stilistica molto pertinente, mai venuta meno in ogni frangente.

Dal podio, Federico Maria Sardelli ha messo in luce con misura esemplare i tanti piccoli tesori strumentali che incastonano la partitura, dai soli per flauto in accompagnamento a un paio di Arie nel secondo atto al violino obbligato della più celebre pagina solistica, il Rondò “L’amerò, sarò costante” di Aminta nel secondo atto. Ma ha anche tornito con sottile adesione di colore e di clima gli accompagnamenti ad Arie che peraltro segnano l’ormai avvenuto inizio della metamorfosi, fuori dal recinto opprimente del “da capo” settecentesco e dentro la grande ricchezza della struttura sonatistica tipica del Classicismo. Nella quale anche l’agilità vocale assume altro peso e altro significato.

Fenice esaurita, numerosi applausi a scena aperta e grande successo alla fine per tutti i protagonisti di questa preziosa “prima veneziana”.

Cesare Galla
(15 febbraio 2019)

La locandina

Direttore Federico Maria Sardelli
Regia Alessio Pizzech
Scene Davide Amadei
Costumi Carla Ricotti
Luci Claudio Schimd
Personaggi e interpreti:
Alessandro Magno Juan Francisco Gatell
Aminta Roberta Mameli
Elisa Elisabeth Breuer
Tamiri Silvia Frigato
Agenore Francisco Fernández-Rueda
Orchestra del Teatro La Fenice
Maestro al cembalo e continuo Roberta Paroletti
Violoncello continuo Alessandro Zanardi

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