La conferenza stampa (parte in presenza e parte telematica) con cui è stato dato l’annuncio è sembrata in vari passaggi quasi un talk show, e non sono mancate le scivolate di stile. Ma è innegabile che il cambiamento, destinato a mettersi in moto il 2 di aprile (partire il giorno precedente non è stato considerato opportuno), ci sia.
Fescennino, satura, fabula atellana: tutti generi teatrali dell’antica Roma legati all’eccesso carnevalesco, al mascheramento e all’uso di un linguaggio plebeo.
In un’Italia che ha sempre visto il festival di Sanremo come una certezza (quasi al pari del campionato di calcio), la macchina che sta prendendo forma per garantire la tradizionale kermesse in epoca di pandemia sta facendo saltare sulla sedia il pubblico della cultura. Dovunque, infatti, si leggono commenti alla “perchè Sanremo si può fare e i concerti no?”.
Parlare di una “Netflix della cultura”, oasi redditizia di fruizione di contenuti artistici, è certamente bello, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, specie in un ambito come questo.
Tra le forme poetiche musicabili il madrigale emerse presto come il più duttile: conciso e privo di ripetizioni, allineava perlopiù endecasillabi e settenari senza stretti obblighi di rima, a parte quella baciata conclusiva.
I teatri come le sale bingo, gli spettacoli dal vivo equiparati a slot-machines e videopoker; questo recita il più recente dei DPCM partorito nottetempo – e forse tardivamente – da un esecutivo che sembra avere ancora una volta perso l’occasione per mettere una pezza alle “manchevolezze” nei confronti di chi lavora nello spettacolo e di esso vive.
Fascino dell’Oriente, ma anche dei ricchi compensi elargiti dal nuovo sultano Abdülmecid, regnante dal 1839 al 1861: un augusto melomane che si dilettava di pianoforte e finanziava di tasca propria una compagnia d’opera alla moda.
“Caro Goldberg, suonami dunque una delle mie variazioni!”. Se dovessimo credere al celeberrimo racconto tramandato dal Forkel, sarebbe il caso di chiamarle “Variazioni Keyserlingk”, dal cognome del musicofilo conte che nel 1740 o 1741 le avrebbe letteralmente acquistate a peso d’oro. Ma i moderni musicologi sono strana gente.
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