Lettera aperta: modernità e tradizione, nell’eterna rincorsa al rapporto vero con il pubblico

Spettabile redazione,

la recensione a firma di Federica Fanizza da voi pubblicata relativa al concerto dell’Icarus Ensemble alla Filarmonica di Rovereto lo scorso 28 marzo (e in cui ero presente in veste di compositore) mi sembra tocchi alcune tematiche meritevoli di discussione e mi spinge ad alcune riflessioni che desidero condividere pubblicamente.

Innanzitutto ringrazio dell’attenzione: sempre più spesso i concerti, e in particolare quelli di musica contemporanea, vengono ignorati dai media, tradizionali e online, che tutt’al più li annunciano nelle pagine degli spettacoli ma poi non li seguono né li commentano. Sempre più rare le occasioni di un confronto, di una riflessione sulle cose della musica. Quindi ben vengano le recensioni e anche le critiche, come quella ben argomentata e costruttivamente espressa dalla vostra collaboratrice.

Desidero solo esprimere il mio parziale dissenso a proposito dell’affermazione secondo la quale il progetto alla base di quel concerto (il rapporto con la musica del passato) fosse espressione di una mancanza di idee dei compositori contemporanei. Il programma proposto dall’Icarus Ensemble a sei compositori non era una dichiarazione di poetica, bensì un progetto particolare in cui i compositori d’oggi erano chiamati a confrontarsi con la musica dei secoli precedenti. E da questo punto di vista credo anzi che il concerto di Rovereto abbia offerto un’immagine della ricchezza dell’attuale panorama musicale italiano, in quanto mi pare che ciascuno dei compositori eseguiti abbia affrontato il tema proposto dall’Icarus secondo diverse prospettive, talora complementari o addirittura divergenti.

Che poi la riflessione sul rapporto con la tradizione rispecchi in parte il travaglio che attraversa il mondo della musica (tutta) è sicuramente vero, e forse proprio su questo vale la pena di aprire un dibattito: un periodo di crisi ormai di lunga data e di cui la difficoltà del rapporto tra musica contemporanea e pubblico costituisce a mio parere solo la punta dell’iceberg, se pensiamo alla difficoltà di proporre opere appena fuori dallo stretto cerchio delle musiche più popolari, o presentate da interpreti che non sono nello star-system. Per quanto riguarda la musica nuova, non c’è dubbio che oggi sono molto lontane le istanze delle neoavanguardie degli anni Sessanta, che postulavano una totale rifondazione della musica, una completa tabula rasa. Oggi, al contrario, si tenta da ogni parte di riallacciare un nuovo rapporto col pubblico, e il tema della continuità o discontinuità con la storia torna ad essere discusso. Tutti noi compositori, credo, viviamo queste difficoltà (non scelte da noi, ma determinate da premesse storiche) e ci dibattiamo attorno ai temi del linguaggio, della forma-concerto, dell’assenza di una koinè condivisa. Cerchiamo, ciascuno a suo modo, di fare i conti con queste problematiche, tentiamo risposte che cercano di ricostruire un rapporto vero con gli ascoltatori, non falsato da anacronistiche separatezze né da ingannevoli scorciatoie.

Personalmente non credo certo che riallacciare in modo acritico i legami col passato attraverso recuperi di linguaggi ormai superati sia la strada da seguire. Ritengo invece che molto vada fatto sul piano della forma-concerto, e qui chiamo in causa gli organizzatori, i critici e i miei stessi colleghi. Il galateo dell’ascolto musicale è oggi troppo spesso una gabbia in cui un malinteso rispetto della musica (non si applaude fra un tempo e l’altro! non si esprime il dissenso! non si va via prima della fine!) diventa una negazione di un rapporto vero e liberamente scelto con la musica stessa. Ma non solo: vedo spesso una mancanza di coraggio nelle forme in cui si propone l’ascolto delle opere nuove; noi stessi compositori tendiamo troppo spesso a trincerarci nell’ultimo fortino del pezzo breve, quasi a non disturbare, mentre gli organizzatori musicali, in nome di un malinteso ‘indice di gradimento’, non presentano opere nuove o le presentano in modo ghettizzante o secondo modalità vecchie che non credo ne valorizzino le caratteristiche e che troppo spesso appaiono solo un alibi circa il proprio ‘impegno sul contemporaneo’. Se c’è una cosa che rimpiango della musica del secondo dopoguerra è proprio il coraggio di proporre progetti coraggiosi, significativi: penso a Momente di Stockhausen, al Prometeo di Nono, alla Passion selon Sade di Bussotti, al Grand Macabre di Ligeti…

Tutti noi, musicisti, pubblico, critici, siamo chiamati a riflettere sulle difficoltà del ruolo della musica oggi: se non assumeremo una nuova consapevolezza di come l’ascolto musicale sia essenziale per la nostra vita, e in particolare di come fondamentale sia il confronto con il nuovo, nel giro di pochi anni temo che la musica d’arte sarà ridotta a un vecchio relitto che non parla più alle orecchie dei contemporanei.

Gabrio Taglietti

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