Spira Mirabilis orchestra democratica

Agli antipodi di Prova d’orchestra, ecco Spira Mirabilis. L’immagine molto italiana (ma con un fondo di verità generale) della superficialità, dell’indifferenza, dell’anarchia e infine del caos generato dalla seduta di prova di un complesso strumentale, si rovescia virtuosamente nel progetto nato giusto dieci anni fa: un’orchestra internazionale (ma con un buon tasso di italianità fra i componenti e con sede italiana) che non necessita nemmeno di un direttore per il semplice fatto che la sua autodisciplina e la sua coesione rendono non necessaria la “forza unificante” di una bacchetta purchessia.

Guardandoli schierati sul palcoscenico del teatro Comunale di Vicenza, dove hanno suonato per la Società del Quartetto, veniva da pensare che solo pochi fra i musicisti che fanno parte di Spira erano nati nel 1979, quando Federico Fellini consegnava il suo straordinario piccolo film di costume. E certo è difficile immaginare uno stacco più evidente, generazionale oltre che artistico, rispetto al disincantato apologo del grande cineasta. E tuttavia, non si può non notare che Spira Mirabilis parte proprio dal punto in cui l’orchestra di Fellini aveva completato il suo “lavoro”: dall’abbattimento dell’idea stessa che sia necessario un direttore. Nel film, il discorso sul potere e la sua gestione era soprattutto politico, almeno nelle implicazioni. Qui nessuno fa politica, non nel senso banale e tradizionale del termine. Eppure tutti la fanno, in maniera ben altrimenti significativa. E a suo modo “rivoluzionaria”.

Il laboratorio di cui consiste Spira Mirabilis – con la sua notevole riuscita artistica – sta infatti a dimostrare che perfino un’orchestra, purché ci sia la volontà di andare oltre i ruoli, può essere “democratica”, può escludere il ruolo del leader, che un secolo e mezzo di visione romantica dell’arte ha trasformato in prometeico demiurgo dell’interpretazione: l’uomo solo al comando dal cui carisma dipende la possibilità che decine di donne e uomini suonino insieme. Anzi, fare musica d’insieme può perfino discendere da una logica assembleare: un contesto nel quale (e lo diciamo senza alcuna implicazione per gli echi partitici di uno slogan già logoro e superato) “uno vale uno”.

Ha molto il sapore dell’utopia, questa scommessa. Specialmente nell’odierno mondo concertistico, con i suoi tempi congestionati e convulsi, che diventano tanto più stretti quanto più la qualità cresce e con esse cresce la domanda del mercato. Perché il principale elemento di un lavoro del genere è proprio il tempo che gli si può dedicare. Molte orchestre suonano bene insieme a prescindere dalla presenza di un direttore, perché fanno valere anni di lavoro comune e comunque implicitamente delineano al loro interno una leadership (esperienza + qualità + carattere) che semplifica e decide, a prescindere da chi sta sul podio e dal fatto che un podio esista. Ma con Spira Mirabilis siamo molto più in là, siamo all’idea di un “collettivo”, inteso proprio nel senso che gli può dare chi negli anni Sessanta e Settanta era vivo e attivo. Nello stesso racconto di questi giovani adulti, l’interpretazione esce da un contesto assembleare. Ovvero discussioni infinite, e magari anche profondi contrasti, ma disciplina di gruppo come valore e scelta comunitaria.

E se non bastasse l’evidenza di questa volontà di procedere secondo un’idea e una prassi già abbondantemente archiviate dalla storia (un modo di immaginare il mondo e la società, e dunque anche l’arte) ecco anche l’idea del dibattito. Finito di suonare, quelli di Spira Mirabilis tornano in scena a parlare con il pubblico. Di metodo, di prassi, di dettagli dell’esecuzione. Sollecitano domande che in effetti arrivano, più o meno interessanti e centrate. E magari sarebbero anche di più se il sistema di microfoni del Comunale non fosse indegno di una sala dei nostri giorni e non presentasse singolari analogie con le amplificazioni gracchianti e sfasate di certe antiche assemblee scolastiche. E non pensiamo proprio che fosse voluto anche questo, per “fare spettacolo” con nostalgia…

Sembra già miracoloso, date le premesse, che un’esperienza complessa e diversa come quella di Spira Mirabilis sia durata dieci anni. Ma quello che sta accadendo si potrebbe riassumere così: alcuni inguaribili idealisti hanno messo in piedi una comune della musica, che non prevede organici fissi o presenze stabili anche se ha ovviamente un suo nocciolo duro. E in giro per l’Europa finora si è sempre trovato chi è disposto a mettersi in gioco, a tentare l’esperienza, senza che questo significhi un limite all’attività “ordinaria” di nessuno. Anzi, con la consapevolezza che il collettivo serve moltissimo anche per suonare “alla vecchia”, con un direttore che impone la sua visione. E allora speriamo che duri.

La serata vicentina era basata sulla Prima Sinfonia di Brahms novità nei programmi per forza di cose essenziali – visti i tempi di preparazione – di questa orchestra. L’ascolto ha chiarito quanto energia, partecipazione, concentrazione e reciproco ascolto – chiari anche nel linguaggio del corpo di ciascuno – siano gli elementi primari del lavoro di tutti. L’organico non è quello tipico delle esecuzioni sinfoniche del secondo Ottocento, ma bastano otto primi violini e otto secondi, cinque viole, cinque violoncelli e tre contrabbassi per dare agli archi la profonda compattezza necessaria a questo Brahms, senza perdere la duttilità e la trasparenza che fanno parte della complessa trama stilistica del musicista amburghese. Suonano benissimo anche i fiati e gli ottoni, capaci di sfumature coloristiche che non fanno aggio sulla nitidezza del fraseggio, ma anzi lo arricchiscono e lo rendono mutevolmente poetico. Il suono è convincente, comunicativo. Ben misurato sulla non facile acustica del Comunale vicentino (e anche questo la dice lunga sulla professionalità dell’insieme)

In generale, l’interpretazione è di notevole densità espressiva, innervata di sottigliezze che cesellano le dinamiche, in alcuni casi le ammorbidiscono e regalano sfumature introspettive, lontane dalla maniera dell’eloquenza alta ed esteriore. Così, ad esempio, il vibrante tema principale del Finale, dopo l’ampia introduzione in due parti, risuona a suo modo intimo, devoto si direbbe, visto che trattasi di dichiarato omaggio a Beethoven.

Qualsiasi direttore sarebbe lieto di dirigere un’orchestra come Spira Mirabilis. A giudicare dalla sorridente eppure feroce convinzione di questi musicisti nel loro metodo, non accadrà. E non c’è di che dolersene.

Cesare Galla

(Vicenza, 20 novembre 2017)

La locandina

Spira Mirabilis
Johannes Brahms
Sinfonia n.1 in Do minore op.68

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