Francesco Micheli: «Per me la Carrà è una maestra»

Mancano pochi giorni al debutto di Raffa in the Sky, la nuova opera ispirata a Raffaella Carrà e dedicata alla società Italiana dal dopoguerra a oggi che andrà in scena al Teatro Donizetti di Bergamo venerdì 29 settembre alle 20.30, con repliche domenica 1° ottobre alle ore 15.30, venerdì 6 ottobre alle 20.30 e domenica 8 ottobre alle 15.30. La musica è di Lamberto Curtoni, mentre il libretto è di Renata Ciaravino e Alberto Mattioli.

L’idea dalla quale tutto ha preso le mosse è di Francesco Micheli che firma anche la regia dello spettacolo: a lui abbiamo rivolto qualche domanda.

  • Come nasce il progetto Raffa in the sky?

Potrei dire che questa idea l’ho sempre avuta dentro. Negli anni della mia formazione, quando ero rinchiuso in Val Brembana il mio luogo di nutrimento artistico, a parte i libri di scuola, erano il cinema e la TV. È chiaro che i grandi film che ho visto con i miei genitori, titoli come La luna, Fizcarraldo, Senso, mi hanno fatto innamorare subito dell’opera lirica; ma poi c’è stata anche la televisione, privata e pubblica, e in particolar modo i varietà del sabato sera nei quali la Carrà primeggiava con la stessa capacità trascinante che avevano le grandi interpreti dell’opera, penso alla Callas, alla Sills, alla Sutherland, che avevo conosciuto attraverso i dischi. Poi la vita professionale mi ha costretto ad operare una cesura netta tra questi due “prodotti”, che nella mia infanzia e adolescenza erano indissolubilmente uniti, erano il mio mondo dei sogni. Sia Donizetti che la Carrà mi facevano ballare, e il luogo era quello in cui il mio spirito si esprimevano al meglio, sicuramente meglio rispetto al mondo reale.

Quel paradiso è stato tagliato in due: uno è quello accademico, ufficiale in cui ho costruito la mia professionalità e la mia poetica artistica e l’altro che è quello etichettato come arte di intrattenimento e di consumo, che per me però non vale assolutamente di meno.

L’esperienza Covid mi ha portato, come operatore culturale orobico, a sbarazzarmi di tutta una serie di compartimentazioni proprie del Novecento ma che ancora ci trasciniamo e ad ascoltarmi con coerenza e a pormi una domanda: su chi Donizetti, oggi, scriverebbe un’opera? Su chi le mille risorse del mondo operistico potrebbero concentrarsi per creare ed esaltare un mito del melodramma così come fecero i grandi compositori?

La risposta per me è stata semplice: Raffella Carrà.

  • Quali sono le sfide da affrontare quando si mette in scena un’opera nuova?

Credo che una prima risorsa di questo progetto rispetto al mondo del teatro e della musica contemporanea sia stato che io come produttore e regista dello spettacolo ho seguito sin dalle prime fasi la gestazione del libretto e della musica. Quindi l’idea era chiara: mettere in scena un mondo che è quello in cui Raffaella Carrà nasce nel 1943, un mondo diviso che mantiene le divisioni anche dopo la pace anche nel mondo dell’arte, dove c’è l’arte accademia e quella bassa.

La Carrà che è un personaggio fantasmagorico, “avanti” e per certi versi fantascientifico e fiera della propria umanità non è mai annoverata nell’ambito degli artisti.

Ne è venuto fuori un cosmo scisso in due, nel quale si ritrova il pianeta Arcadia dal quale gli artisti mandano missioni per spargere cultura e il pianeta Terra con le proprie contraddizioni e disagi.

Quindi a questa divisione la si rinviene in palcoscenico nella dicotomia tra la fredda perfezione di Arcadia e la vivacità tellurica della Terra.

  • Che cosa vedrà e ascolterà il pubblico?

Il pubblico si troverà di fronte un a grande favola della contemporaneità che ha per protagonista una vera e propria eroina dei nostri tempi Quindi, come dicevo prima, vedrà due mondi, quello di Arcadia che è affascinante ma è un pianeta lontano anni luce dal nostro, così come fuor di metafora l’arte è un’astronave che sorvola la realtà senza interagire con essa.

Dall’altra parte c’è il mondo dell’Italia del Dopoguerra che si è trasformato con una velocità sin ad allora mai vista; quindi mi sembra utile constatare quanto sia necessario per il pubblico di oggi assistere a spettacoli sul mondo di ieri grazia al quale siamo quelli di oggi.

Vivere tutto questo attraverso Raffaella Carrà ci riempie di gioia e di speranza per un futuro tutt’latro che roseo ma che dobbiamo riuscire a determinare il più possibile a nostro vantaggio e non verso l’autodistruzione a cui sembriamo destinati.

L’opera torna dunque ad recuperare la funzione etica ed estetica di specchio della civiltà che attraverso la bellezza ci permette di accettare quelle parti di noi che non ci piacciono e di amare quelle che ci piacciono per farle durare.

Dal punto di vista musicale Lamberto Curtoni è stato abile nel mettere insieme il vasto universo di suoni che caratterizza il nostro tempo in una forma variegata e compatta.

  • È più complesso mettere in scena un’opera nuova o una del grande repertorio?

Da un lato mettere in scena un’opera del grande repertorio è rassicurante perché hai la certezza che la struttura drammaturgica, testuale e musicale funziona, altrimenti non avrebbe retto alle intemperie del tempo. D’altro canto però, quando rappresenti verdi o Donizetti vorresti averli accanto per aver da loro conforto sul fatto che quel che stati facendo ha senso.

Qui invece il compositore ce l’abbiamo e certo qual modo siamo noi stessi la verifica della bontà di quanto facciamo, perché è un’opera nuova, che parla di noi e della quale siamo in grado di comprende se una determinata frase abbia senso.

Giochiamo in casa, insomma, il che è terribile da un lato ma confortante dall’altro

  • Ultima domanda. Almodóvar ha detto che la Carrà non era una donna, ma uno stile di vita: chi è per lei Raffaella?

Per me la Carrà è una maestra, una persona che mi ha insegnato dei valori che ho impiegato un’intera vita ad apprezzare: l’amor proprio, l’amore per gli altri e sulla base di questo nuovo Vangelo dell’Amore il dialogo e l’interazione col sorriso sulle labbra e con la serenità che se si è mossi da buone intenzioni presto o tardi il brutto passerà. Poi è una lezione di grande professionismo, di dedizione totale all’arte passa attraverso il cuore, la mente, l’anima e il corpo.

Alessandro Cammarano

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