Il pomeriggio del Prete Rosso

Una giornata di tutto riposo per l’infaticabile imprenditore veneziano Antonio Vivaldi. Che sa far bene i suoi conti e ogni tanto si ricorda di essere prete, ma senza mai smettere di pensare in musica

11 febbraio 1727, martedì, San Lazzaro vescovo. Don Antonio Vivaldi si risveglia poco dopo mezzogiorno nella sua casa in parrocchia di Santa Marina al Ponte del Paradiso, dove abita da oltre quattro anni con i genitori, il fratello Giuseppe e tre persone di servizio. La sera precedente ha fatto tardi festeggiando il buon esito del suo Farnace, andato in scena per la prima volta al Teatro Sant’Angelo. Dopo la rappresentazione, nel corso della quale come al solito ha diretto l’orchestra suonando il primo violino e incantando il pubblico con le sue audaci cadenze improvvisate, lo ha accompagnato a casa un piccolo corteo di barche dove avevano preso posto i suoi più stretti collaboratori: anzitutto il padre Giambattista, poi l’inseparabile Annina Girò, il poeta Antonio Maria Lucchini, autore del libretto, lo scenografo Antonio Mauro, cognato e amministratore del Prete Rosso – oltreché padre di due ragazzini, Pietro e Daniele, che già prendono qualche lezione di violino dal celebre zio. Come musicisti non sembrano troppo dotati, ma hanno una bella mano di scrittura; col tempo c’è il caso di tirarne fuori due bravi copisti.

Nell’intervallo dopo il second’atto la primadonna Maddalena Pieri, una procace bruna fiorentina dalla grande bocca un po’ volgare, lo ha chiamato da parte in camerino e gli ha mostrato una lettera appena ricevuta dal di lei protettore, il marchese Luca Casimiro degli Albizzi. Buone notizie: dopo l’iniziale fiasco al Teatro della Pergola, l’Ipermestra sta andando forte nelle repliche, e il marchese, che ha investito un bel po’ di denari nell’impresa, è contento di Vivaldi. Peccato che le due signore, la Maddalena e l’Annina, non si possano soffrire a vicenda; lo si è capito da mille dispettucci durante le prove. In particolare l’Annina non perdona alla rivale di averle soffiato il ruolo di primadonna (che poi in questo caso è travestita da uomo), facendosi forte della protezione del marchese. Pazienza, Vivaldi cercherà di consolarla regalandole una muta di quei magnifici scialli fiorentini di seta che la Pieri sfoggia ogni sera. Forse il marchese potrà spedirglieli a Venezia con qualche sconto.

Ma adesso è ora d’uscire di casa, dopo aver bevuto in fretta una cioccolata. La gazzetta scrive che la regina di Francia è incinta. Di sicuro monsù de Gergy, vecchia volpe diplomatica, vorrà aver pronta una serenata da far cantare in ambasciata, e se nasce un maschio addirittura un Te Deum. Bisognerà pensarci a tempo; tanto se il parto andasse male non mancheranno altre occasioni. Questi francesi ingollano i Te Deum come fossero biscotti, solo che hanno il gusto un po’ pesante: fanfare di trombe, oboè, corni e timballi come se piovesse. A Venezia si lavora più di fino; fortuna che monsù l’ambasciatore sa apprezzare la differenza.

Sulla fondamenta sotto casa la gondola coperta già aspetta: Don Antonio è un invalido che non può camminare molto a causa della sua strettezza di petto. “Utrum asthma sit, an pulmonare emphysema?” spropositano i dottori; ma dopo averla ribattezzarla in latino non sanno farci un bel nulla a parte i soliti rimedi della nonna: suffumigi e cataplasmi. Lui sa solo che lo perseguita fin dall’infanzia e che lo ha costretto a smettere di dir Messa poco dopo ordinato sacerdote. Mentre il gondoliere voga col suo ritmo cadenzato, prima lungo il Rio di Santa Maria Formosa e poi per quello di Palazzo Ducale, lui ripensa all’ultimo periodo di febbrile lavoro sul Farnace. Sette giorni in tutto, solo due in più di quelli impiegati tre anni fa per scrivere il Tito Manlio, dormendo poche ore per notte e consegnando ogni tanto i fogli ancor freschi d’inchiostro al copista che andava e veniva di corsa dal teatro dove la compagnia stava già provando dal 5 di febbraio, quando la licenza di censura per la rappresentazione era stata firmata dal Frate Inquisitore e dai tre Riformatori dello Studio di Padova, quei parrucconi Eccellentissimi. Per lui questo modo frenetico di comporre ha finito per diventare un bisogno, come una droga eccitante.

Passando sotto il Ponte dei Sospiri, davanti alle prigioni di Stato, Vivaldi pensa con un ghigno ironico che anche lui è una specie di galeotto, incatenato alla scrivania dalle scadenze implacabili, dai conti da saldare, dalla corrispondenza d’affari che deve spedire di continuo alla volta di Firenze, Roma, Parigi, Amsterdam, Vienna, Praga… Almeno in questa stagione il guadagno sembra sicuro, e le notizie da Firenze sono incoraggianti. Poi a giorni dovrebbe arrivargli il solito assegno dal conte Morzin, quell’originale che nel suo castello di Boemia non è mai stanco di farsi suonare dalla sua orchestra privata i concerti delle Quattro Stagioni, che lui gli ha dedicato due anni prima. Uno dei migliori affari della sua vita, mettendo nel conto anche le copie vendute e la pubblicità in tutt’Europa.

Mentre la barca, dopo una larga virata a mancina, sta costeggiando la Riva degli Schiavoni e punta verso l’Ospedale della Pietà, Vivaldi ripassa velocemente i fogli del concerto che deve provare con le sue orfanelle. Le ha un po’ trascurate ultimamente, anche se da undici anni non è più il loro maestro ufficiale, ma conserva soltanto l’impegno di fornire loro due concerti nuovi al mese e di andare ogni tanto a sorvegliare le prove. Nemmeno un quarto d’ora dopo, esaurite le festose accoglienze, è già seduto al suo posto di comando, pronto a seguire il primo colpo d’archetto dato dalla famosa Anna Maria. Non è più una ragazzina, il tempo passa anche per lei; ma che temperamento, che fuoco! Per un paio d’ore Don Antonio dimentica tutto, anche la stanchezza, anche il freddo che trapassa la pesante coperta trapunta con la quale le sue “figlie di coro”, sempre piene di affettuose premure, gli hanno coperto le ginocchia. Dopo la prova segue un allegro rinfresco; il cassiere dell’Ospedale era insolitamente gentile e ha promesso di versargli quanto prima un acconto sul suo semestre di spettanze. Da Roma, ha detto, scrivono che il maestro Gasparini sta molto male e forse non passerà l’inverno. Non vorrebbe Don Antonio ripensare alla proposta di succedergli come maestro di coro alla Pietà? A tempo pieno? Grazie; ci penserò, ma senza impegno. Meglio tacere la verità, cioè che l’onore è grande ma la paga è poca: scrivere opere e metterle in scena gli porta già via troppo tempo, però rende molto meglio. Ossessionato dai soldi, lui? Macché, sono tutte calunnie degl’invidiosi. La verità è che senza un albero genealogico o uno scrigno ben fornito a Venezia non sei nessuno e chiunque si sente autorizzato a metterti in berlina. Come quel nobiluomo Benedetto Marcello, peccatore pentito, snob insopportabile e in musica gran seccatore, vegnimo a dir el merito.

Il pallido sole di febbraio sta quasi per tramontare, ma per Vivaldi la stagione d’inverno declinante è la preferita; quella che precede il suo compleanno, quando (lo dicono anche i medici!) la vita si rinnova e il sangue scorre più veloce nelle vene. Dunque non tornerà subito a casa; anzi dà ordine al gondoliere di vogare verso la Piazzetta di San Marco, e di là, in un bel giro senza fretta lungo il Canal Grande, di portarlo al Teatro Sant’Angelo. Questa sera non c’è recita, naturalmente, ma bisogna rivedere i conti del botteghino col fidato Mauro. Fidato sì, ma chi può mai sapere? E certo la signora Annina e sua sorella Paolina lo stanno già aspettando per portarlo a cena a casa loro, come avevano promesso fin dopo la prova generale. Il breviario semiaperto sulle ginocchia, alle ultime luci del giorno che filtrano dai finestrini della gondola, il Prete Rosso recita con tranquilla abitudine il Dixit Dominus, primo salmo dei Vespri. La barca scivola leggera sul canale, oltre la Punta della Dogana dall’alto della quale la statua dorata della Fortuna getta appena qualche incerto bagliore, passa oltre la montagna marmorea della Salute; sfila sotto i grandi finestroni di Ca’ Corner già illuminati dalle candele, dietro ai quali risuonano debolmente i primi accordi di un’orchestra per una festa da ballo che va a cominciare.

In splendoribus sanctorum ex utero ante luciferum… Qui ci starebbe bene un Mi o un La minore, con lo splendore misterioso di accordi concatenati a scintillare come le stelle in fondo a un pozzo. E dopo? Sarà meglio un Do maggiore bello secco oppure un Sol da raggiungere un po’ per volta con una graziosa modulazione? Per Judicabit in nationibus c’è poco da discutere: Re maggiore ha da essere, Re maggiore con una o due trombe. Il breviario scivola a terra mentre la preghiera si trasforma in solfeggio e il taccuino si copre a precipizio di note sempre più inclinate verso destra. E che male c’è? Non sta forse scritto: Cantate Domino canticum novum?
Non lo riscuote nemmeno la risata d’una comitiva di maschere in attesa del traghetto davanti al Rio San Barnaba. C’è spettacolo questa sera al Teatro San Samuele? Vivaldi non sa, non ricorda più nulla. Vivaldi sonnecchia, comodamente semisdraiato sul sedile. Oggi è stato quasi un giorno di vacanza, ma domani si riattacca a lavorare sul serio.

Carlo Vitali

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