Marcello Nardis, Trimalcione e il gioco della satira

Alla vigilia della “prima” del Satyricon di Bruno Maderna – che compie cinquant’anni – in scena al Teatro Malibran di Venezia nell’ambito della stagione 22-23 del Teatro La Fenice incontriamo il tenore romano Marcello Nardis, presenza costante del palcoscenico lagunare, che vestirà i panni di Trimalcione nella produzione firmata da Francesco Bortolozzo.

  • È difficile calarsi nei panni di un parvenu come Trimalcione?

Significa accettare letteralmente il gioco della satira. È stato utilissimo rileggere Petronio, ripartire dalle fonti, ossia quello che resta dell’unico romanzo latino insieme a Le metamorfosi di Apuleio che ci è pervenuto, il Satyricon, in cui la storia di Trimalcione non è che parte di un ‘tutto’ più ampio, una parodia del romanzo erotico greco, dell’Odissea stessa (qui l’ira è quella di Priapo). D’altro canto ho cercato di rintracciare gli esiti che la figura di questo protagonista (la «cena di Trimalcione» come caricatura del Simposio platonico) ha esercitato nella cultura occidentale, voglio dire, dal Grande Gatsby alle riletture cinematografiche di Fellini e (l’anno successivo) di Polidoro. Pensiamo allo stesso Greenaway che si ispira al Teatro satirico dell’Inghilterra di Giacomo I: Albert Spica è un Trimalchio nel pieno delle sue funzioni e con tutto il corredo di pannelli teatrali (o pittorici) che ne deriva: la cena, il cuoco, Habinnas, Fortunata, la moglie e l’amante. Mi sono reso conto che il rischio che potevo correre perseguendo un approccio immersivo era quello di viziare l’interpretazione del personaggio condizionato dall’orizzonte di attesa, ossia restituirlo non diversamente da come tutti si aspettano di «riconoscerlo».

  • Una visione diversa, dunque, da quella “comune”.

Esatto. Ho puntato a qualcosa che andasse oltre lo stereotipo, sia pure secondo una prospettiva estetizzante, bizantina. Non necessariamente il mostro, la caricatura (come Tacito fa di Petronio stesso negli Annales). O, almeno, non solo. Alla incrostazione oleografica ho preferito proporre un approccio olografico, per trame di immagini, di visioni. In questo la scrittura di Maderna, il suo esuberante universo sonoro, il libretto (dello stesso Maderna in collaborazione con Strasfogel) sono stati dei laser scintillanti a sostegno di una pulizia di intenti che valeva assolutamente la pena di perseguire.

Mi sono concentrato nel dettaglio sulla parola, sugli gli effetti diversi suggeriti dalla alternanza delle lingue (l’inglese, il francese, il tedesco, l’italiano, il latino), sui colori suggeriti dall’altezza delle note, sugli effetti espressivi della tessitura, diversa nei vari interventi. Perché Trimalcione ha sì del torbido, del ridondante, dell’eccessivo, ma anche qualcosa di tenero, di intimidito, di doloroso che la musica di Maderna esprime. Ferita e scongiuro, materia opaca e lucente, è un uomo che ha iniziato dal nulla, amasio fino a quattordici anni e poi liberto ricchissimo. Sogno e visione contribuiscono a delineare una parodia del mistero (nel senso più propriamente eleusino), una teologia clandestina in cui il tempo, il senso del disfacimento, della morte e anche della posterità si inseguono senza sosta, in una eccitazione accelerata che nell’opera si manifesta con la bulimia linguistica del personaggio, con i suoi rap ritmici, con l’«eccesso» di canto.

Ho poi pensato alla letteratura di Cartarescu, una disposizione compatta di fatti reali alternati a immagini-simbolo, per meglio dire, alla dimensione onirica (nel caso di Maderna i tape che sia alternano ai numeri musicali eseguiti dai solisti e dall’orchestra) che si sostituisce o affianca quella reale, per accumulazione «melanconica». In fondo Trimalchio è una efficacissima ipotesi retorica, un vuoto «enorme», un luogo dei contrari, una congiunzione di opposti, superstizione e convenienza, una affermazione delle contraddizioni, sentenze ed ekfrasi, emblemi e metafore che suggeriscono verità e nascondono menzogne, nell’infinito gioco combinatorio del ‘possibile’, del continuo differimento di significati, che è la vera liturgia della sua esistenza. In questa prospettiva il Satyricon di Maderna nel suo essere una «scatola» teatrale di suoni, rito di parola e movimento è quanto di più barocco ci si possa aspettare.

  • Quale eredità ha lasciato Maderna alla musica contemporanea?

Io credo che possa essere il suo senso della leggerezza e della ironia. Qualcosa di profondissimo e al contempo estemporaneo. Per più di un aspetto – non solo il suo essere stato enfant prodige sia da violinista che da direttore d’orchestra, sotto la tutela lungimirante del nonno – Maderna restituisce qualcosa di ‘autenticamente’ mozartiano nella scrittura, nell’approccio stesso alla materia sonora. A cominciare dal fondamento melodico che, pur inserito in un contesto di piena e convinta avanguardia, egli non ha mai rinnegato. Il Satyricon è un esempio fulgidissimo di questa convivenza autentica e ‘onesta’ tra materiale melodico, innovazione armonica e modernità timbrica. Voglio dire che, pur vivendo appieno l’esperienza intensissima di Darmstadt, la stagione gloriosa del Laboratorio di Fonologia di Milano con Berio, essendo stato tra i primi a farsi portavoce delle istanze dell’Espressionismo musicale tedesco, Maderna non ha mai abiurato alla sua ‘storia’, alle sue origini, ai suoi studi venezianissimi con Gian Francesco Malipiero che gli aveva disvelato i tesori della musica barocca e della polifonia rinascimentale.

Ricordo bene le parole di Giorgio Pressburger che raccontò a Bologna, in occasione di una giornata di studio in onore del compositore dieci anni fa, sul senso del teatro di Maderna, il lascito del Don Perlimplin e poi la mitologia di Hyperion IV, la decima delle undici versioni che Maderna compose sul mito greco di Hyperion, ispirandosi a Hölderlin e che anche io ascoltai per la prima volta. Ecco, secondo me, la sua eredità  – che potrebbe essere ancora raccolta  – si condensa in questo approccio ‘umanistico’ fatto di innovazione, sperimentalismo, ma anche memoria, senso di appartenenza, tradizione. È stato un compositore forte di una ‘morbidezza’ indulgente che l’ha riparato dalla intransigenza più numero-grafica di altri suoi celebri colleghi. Che è forse quella di una venezianità divertita ma mai superficiale. Quella di Goldoni, quella di Wolf- Ferrari. Quella di Maderna, appunto.

  • Si riconosce nella definizione di “interprete colto”?

Riconosco certamente che la mia esperienza artistica non nasce esclusivamente dal canto e non si esaurisce in esso: al contrario, è l’esito di una serie di contenuti diversi. Sono intellettualmente assai curioso. Dormo poco, ho ricominciato a suonare moltissimo, mi piace approfondire, imparare, affinare gli strumenti dell’analisi. E riservarmi il gusto di prendere una posizione.

  • La sua carriera si va sviluppando attraverso scelte tanto oculate quanto non “tradizionali”. Sbaglio?

Scelte non «tradizionali», forse, a cominciare dai miei inizi. Quando ho voluto studiare a Weimar con Peter Schreier il repertorio liederistico, successivamente a Salisburgo con Kurt Widmer e, infine, quando mi sono trasferito a Vienna dove ho avuto il privilegio di collaborare con Norman Shetler e Paul Badura-Skoda. È stata una sfida, soprattutto al principio con la lingua, la memoria, scoprendo (o riconoscendo) una sensibilità ideale per un repertorio che conoscevo solo da pianista, che mi ha regalato indimenticabili soddisfazioni. A cominciare da una prima Winterreise nella casa natale di Schubert, i Lieder di Schumann in diretta radiofonica alla Stadthalle di Bayreuth, quelli di Liszt incisi con Michele Campanella, proseguendo col sincero orgoglio di essere stato il primo tenore ad aver eseguito (incredibile a dirsi) per intero il ciclo dei Wesendonck-Lieder, anche nella versificazione originale di Boito, al Festival di Ravello e poi alla Carnegie Hall con Bruno Canino.

La ‘pratica’ musicale secondo me è uno dei binari (insieme con il rigore morale) sui quali la ‘carriera’ si mantiene in equilibrio, prende velocità e, rinnovandosi quotidianamente, può correre verso sempre nuovi traguardi. La musica si deve ‘agire’: leggere il repertorio, ‘provarlo’, ascoltare, ascoltarsi, farsi ascoltare. Studiare è un tonico, la migliore risorsa per mantenere intatta una certa freschezza emotiva con cui affrontare le sfide, le difficoltà o le attese. Dopo aver conseguito lo scorso anno il diploma in canto rinascimentale e barocco sotto la guida preziosissima di Roberta Invernizzi, il clavicembalo è la più recente e totalizzante new entry nella mia vita di musicista attivo. Sono convinto che conoscere la prassi esecutiva utile ad affrontare un madrigale di Monteverdi o una cantata di Bach, essere in grado di realizzare – nella pratica estemporanea – un basso continuo non contraddicano minimamente, almeno secondo la mia esperienza diretta, la familiarità con la scrittura di Stravinskij, di Berg, o di Hindemith. Sono prospettive diverse, competenze che si arricchiscono vicendevolmente.

  • Qualcuno la consiglia?

Personalmente devo moltissimo alla fiducia premurosa e stimolante del mio agente perché suggerisce e coltiva le scelte più giuste per me, sancite da collaborazioni che si rinnovano nel tempo, come questa con Venezia, che è continuativa da più di dieci anni. Un Teatro – in questo caso La Fenice che, insieme all’Opera di Roma, considero davvero la mia casa – è le persone che ci lavorano, a cominciare dalla Direzione cui va il merito di fornire (e di tutelare) un prezioso, fondamentale input indentitario che incoraggia, coltiva il personale sviluppo artistico di ognuno di noi. La Fenice è un congegno prezioso di intenti e di capacità realizzative; basti pensare alla musica contemporanea, alle prime italiane o alle prime assolute che ho potuto debuttare in questi anni: dalla Lou Salomè di Sinopoli, ad Aquagranda di Perocco, fino alle Baruffe di Battistelli, la scorsa stagione. E poi devo a Venezia il consolidarsi negli anni del rapporto umano e artistico, di quel feeling veramente speciale che ho con Damiano Michieletto e la sua squadra.

  • Impegni futuri?

Il libro sul rapporto ‘musicale’ tra d’Annunzio e la pianista veneziana Luisa Baccara.

Alessandro Cammarano

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