Michele Spotti: Vi racconto il mio Donizetti

Tra una recita e l’altra della Fille du régiment (qui la nostra recensione) in scena al festival Donizetti Opera di Bergamo incontriamo Michele Spotti, bacchetta tra le più interessanti tra quelle di questa Età dell’Oro per la direzione d’orchestra italiana caratterizzata da una fantastica generazione di talenti “under 30”, protagonista di una prova maiuscola e che tra un macchiato e un biscottino al burro – quale miglior luogo di un caffè per un’intervista? – parla del suo Donizetti.

  • Domanda d’esordio, forse un po’ da rotocalco e me ne scuso: che cos’è, o meglio chi è per te Donizetti?

Donizetti per me è sicuramente uno degli autori più interessanti per quello che riguarda il Belcanto; ma se devo classificarlo vado un po’ controcorrente e dico che è un eccellente uomo di teatro – e questo lo dicono tutti – ma è anche un eccezionale orchestratore, che secondo me è uno dei suoi aspetti più interessanti.

  • Donizetti è anche un fantastico innovatore …

La portata innovatrice che Donizetti mette nelle sue opere è per me qualcosa di straordinario, basti pensare all’utilizzo timbrico che fa di certi strumenti rispetto alla psicologia dei personaggi, cosa di cui ci stupiamo noi esecutori e ascoltatori del 2021; non oso pensare agli effetti nella Fille du régiment ad esempio che queste soluzioni geniali potessero fare duecento anni fa. Lo si potrebbe definire un precursore della psicoanalisi in musica: basti pensare all’utilizzo che nella Lucia fa della glassarmonica, strumento che riconduceva a degli spasimi, a delle difficoltà di relazione.

Anche la precisione della sua orchestrazione ha dell’incredibile. Nella Fille du régiment ad esempio anche nei numeri all’apparenza più semplici, come il terzetto del secondo atto, ogni frase, ogni semifrase è orchestrata in modo differente e questo lascia capire quale sia la sua capacità di trovare nuances sempre diverse.

  • In questo momento, qui al Donizetti Opera, stai dirigendo la Fille du régiment. Ci sono – e se sì quali – differenze tra il Donizetti francese e quello italiano?

Mi trovo particolarmente bene con il Donizetti francese, perché ha un tipo di scrittura capace di precorrere quello che saranno il Grand-opéra e anche l’Opéra-comique; basti pensare ad Offenbach e a tanti altri autori che saranno fondamentali nello sviluppo dell’arte operistica francese dell’Ottocento.

Le differenze ci sono sicuramente e sono date soprattutto dall’utilizzo di alcuni strumenti, penso alle percussioni ad esempio ma non solo, che nel Donizetti francese è più raffinato rispetto a quello italiano, che però a sua volta brilla per verve e puissance agogica. La produzione francese ha un equilibrio formale molto più definito in cui è più difficile trovare la quadra perché c’è una grande complessità e raffinatezza nei momenti clou dell’opera che secondo me sono figli di una indubbia arte compositiva.

La cosa per me più inebriante, torno a ripetermi, del Donizetti francese è sempre l’utilizzo timbrico; basti pensare al Don Pasquale – che difatti è un’opera francese nonostante il libretto sia in italiano – con l’utilizzo degli strumenti solisti, degli entracte, degli interludi e di tutto un coté sinfonico che è ulteriormente ampliato nella scrittura francese di Donizetti che rende il discorso ancora più interessante e intrigante.

  • A questo punto mi viene spontanea una domanda, anche perché è da sempre un mio interrogativo. Rossini, Donizetti e Verdi cambiano in qualche maniera quando vanno a fare un bagno nella Senna? È una mia impressione o corrisponde a verità?

Felicemente corrisponde alla verità perché è innegabile e insito nell’uomo l’essere influenzato dall’ambiente circostante sia a livello artistico ma anche a livello culturale e dal paesaggio. Come anche nella società di oggi siamo influenzati nel bene e nel male da alcuni aspetti culturali, lo stesso accedeva a questi autori che però mantenevano comunque la spina dorsale immutata, vale a dire una capacità di gestire le scene drammaturgica all’italiana. La cultura francese è stato un arricchimento ulteriore di una tavolozza di colori già ben definita prima del loro arrivo in a Parigi. L’apporto della cultura francese è stato comunque fondamentale; tra l’altro io adoro alla follia la cultura operistica francese è straordinaria non solo quando ci si riferisce a Meyerbeer ma anche rispetto a centinaia di autentici capolavori di Halévy, di Offenbach, di Lalo più tardi che dovrebbero essere eseguiti più frequentemente. La riscoperta di questi lavori sarebbe utile anche per meglio comprendere il cambiamento che hanno contribuito ad operare sugli autori italiani di cui parlavamo sopra.

  • In questa Fille bergamasca quanto importante è stato il rapporto dei cantanti con la lingua francese, visto anche l’apporto significativo del vocal coaching a cura del Palazzetto Bru-Zane?

Devo dire che il lavoro fatto sul testo è stato è stato pari a quello sulla musica. Per quel che mi riguarda è stato fondamentale l’apporto di Edwige Herchenroder che ha dato una grandissima mano sia per precisione della lingua che per la fluidità del linguaggio; un lavoro certosino, contando anche che non abbiamo cantatati madrelingua, eccezion fatta per Adriana Bignagni Lesca che interpreta la Marquise, e che dunque è per me fonte di soddisfazione ancora più grande. Senza una linea guida per la metrica e la prosodia il risultato non sarebbe stato così brillante.

  • Ultima domanda: quali saranno i tuoi Donizetti futuri?

Una nuova produzione dell’Elisir d’amore a Stoccarda tra poco; poi c’è il mio grande desiderio di intraprendere il percorso del Donizetti tragico, che finora ho affrontato per piccoli estratti nell’ambito dei concerti ma ancora mai che però mi hanno fatto venire un gran voglia di dirigerlo. Credo il prossimo titolo sarà Lucia di Lammermoor.

Alessandro Cammarano

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