Napoli: Maria Joāo Pires Sacerdotessa del San Carlo

Venerdì 21 aprile 2023 ha preso vita il Festival Pianistico 2023 della Fondazione Teatro di San Carlo in Napoli. La scelta di inserire nel Cartellone una iniziativa di questo peso è una felice quanto doverosa presa d’atto per una città come Napoli che può vantare molti primati in ogni ambito e lungo diversi secoli, tra cui spicca senza’altro l’Arte pianistica (anche se ormai ciò si dimentica troppo spesso!).

Non solo il merito del primo concerto pianistico pubblico dato in quella che oggi chiamiamo Italia spetta a Francesco Lanza (capostipite della Scuola Pianistica Napoletana) ma di lui bisogna ricordare il legame con Muzio Clementi, “il padre del Pianoforte” …  correva l’anno 1804 e, mentre il citato concerto aveva luogo presso il Teatro dei Fiorentini, a Napoli era presente anche lo stesso  Clementi che, grazie al fatto di essere Maestro di Lanza a Londra, trovò nel concerto del discepolo un efficace veicolo per pubblicizzare i pianoforti della sua fabbrica Londinese Clementi & Co… Oltre a questo, prendendo come spunto lo spirito di un Festival pianistico stabile presso il Massimo Napoletano, è bene aggiungere una nota di riflessione rispetto al fatto che è sì vero che Lanza “fu il primo che introdusse in Napoli quella classica scuola di Muzio Clementi, che, progredendo sempre da quel tempo sin oggi, ha dato i più felici risultamenti” (cit. F. Florimo, 1882) ma che è altrettanto vero che il peso della responsabilità di una così importante eredità andrebbe più e meglio rammentato dai molti “eredi” a vario titolo di questa genealogia di progressi. Oggigiorno si ha l’impressione che si guardi troppo spesso e male ad approcci, abitudini e Scuole che, seppur valide, risultano in molti casi male importate; più giusto e saggio sarebbe recuperare una identità di Scuola, quella che il Mondo intero ha invidiato a Napoli per decine di lustri, evitando che questa finisca di perdersi o che, ancor peggio, sia mistificata in allontanamento da quanto la ratio dei Clementi, dei Lanza, dei Cesi, dei Martucci, dei Rossomandi, dei Longo, dei Brugnoli, degli Scaramuzza, dei Vitale, dei Denza, dei Fiorentino, degli Spagnolo, dei Ciccolini hanno saputo conservare, accrescere e migliorare.

Altra premessa importante è riconducibile alla bella citazione che Pier paolo Di Martino offre nelle Note di Sala, in omaggio al recentemente scomparso Piero Rattalino citando: “La musica deve essere impersonificata […] Oggi bisogna riprendere la recitazione del testo che è anche una ricreazione e che si assume la responsabilità di essere soggettiva, ripristinando la differenza tra la comunicazione scritta (disco) e quella orale (il recital)”.

A questo è opportuno aggiungere una specifica: l’interprete è colui che, secondo suo soggettivo potenziale estetico-culturale-esperienziale pone in essere il testo consegnatogli dall’autore nella sua esattezza formale e dei segni tutti nel testo riportati; il “fenomeno da circo” (che pure ha sua ragion d’essere per il diletto delle folle) non è considerabile a livello del primo ne dovrebbero appartenergli particolari riconoscimenti, se non quelli di coloro che non permeano le Arti ma che le percepiscono superficialmente e che pure hanno piacere a goderne attraverso questi fenomeni.

Tutte queste premesse si sono rese necessarie in quanto il Festival Pianistico del Teatro di San Carlo è qualcosa di necessario e che, salvo fraintendimenti, si auspica debba poter perseguire lo spirito di preservazione e miglioramento che la storicità della Scuola Pianistica Napoletana rappresenta non solo meramente a livello simbolico, sapendo cogliere quelle eccellenze interpretative che la Contemporaneità ha a disposizione a livello Internazionale, ma senza escludere gli autoctoni (che pure di ottimi ce ne sono!) in programmazioni prossime-future onde ottemperare alla funzione socio-culturale che al Massimo Napoletano è affidata dalla sua Natura.

Venerdì 21 aprile 2023, il Festival Pianistico ha scelto come primo appuntamento il Recital di Maria João Pires che, più che un concerto, è bene definirlo per quello che è stato: un miracolo!

Maria João Pires (classe 1944!) è una sacerdotessa del pianoforte, depositaria generosa di una misticità personale figlia dell’abnegazione e del sacrificio, unica nel rapporto psico-fisico con lo strumento ed esempio per noi e per il futuro rispetto a quella Filosofia di Vita e di Arte che è bene porre in essere e proteggere a qualunque costo e, perché no, in netta opposizione con la tristemente dilagante moda del pianismo “a circuito chiuso”, quello delle 100 note al secondo da eseguirsi più pulite e veloce che si possa, senza però alcuna perfezione estetica e quindi culturale delle stesse.

Il pianismo di Maria João Pires, gigantesca anima all’interno di un corpo minuto e vivace, nulla lascia al caso, mai! Altrettanto, il tempo della consunzione corporea non sembra per lei possa, arrivare mai: schiena drittissima, postura impeccabile, mani e dita di una ventenne con il bonus dell’esperienza plurisettantennale che le garantisce di avere in dieci dita un numero esponenziale di pennelli e colori. Ogni respiro ed ogni gesto sono al servizio dell’unica cosa che conta: la Musica, rappresentata dal Testo e generata attraverso la consapevolezza che il Pianoforte sia uno strumento che permette al musicista che se ne serve di officiare un rito altissimo, quello della condivisione di messaggi ispiratori di cui gli altri esseri umani hanno bisogno, oggigiorno ancor di più, e che vanno veicolati in sempre maggior numero grazie ad occasioni come questa inaugurazione Napoletana.

La sacerdotessa Pires comincia il suo programma con la Sonata in La Maggiore D. 664 di Franz Schubert. Molti sottovalutano questo lavoro, relegandolo a dignità inferiore rispetto alle ultime grandi Sonate per pianoforte ma Pires risponde coi fatti sin dal principio restituendo l’essenza di questa Sonata che, scritta nell’estate del 1819 e pubblicata postuma dieci anno dopo, rappresenta un esempio perfetto della complessità Schubertiana, attraverso l’esatta proporzione tra durata della composizione e contesto estetico di riferimento. Intima nella concezione e raffinatissima nella gestione dei piani sonori, dove la trattazione tematica e quella armonica hanno una evidente connotazione cameristica, la Sonata in La maggiore D. 664 pone all’interprete un ulteriore problema di scelta non trascurabile: il tactus. Se l’andamento del Primo movimento dice Allegro Moderato ma presenta le suddette caratteristiche melodiche ed armoniche, non è possibile spingersi troppo in avanti con la velocità: Pires ne sceglie una più vicina al Moderato, dove il senso della misura quaternaria è molto chiaro e scandito, senza che ciò impedisca ad ogni frase un respiro ampio, molto ben sostenuto da un fiato che pochi possono consentirsi; tutto ciò valorizzando ognuna delle cesellature agogiche ed adoperando una precisa individuazione timbrica per ogni cellula tematica ed armonica. L’Andante centrale è un’altra dimostrazione di livello: rispetto alla sua natura monotematica, questo movimento richiede all’interprete un controllo del suono impeccabile ed una varietà timbrica mai banale… se Pires lo avesse risuonato altre due o tre volte nessuno avrebbe desiderato che smettesse! L’Allegro conclusivo in Forma Sonata merita due citazioni in particolare rispetto a quanto ascoltato: la scelta dinamico-timbrica immaginata per il Secondo Tema che ne ha permesso una restituzione autentica e scevra dal banalissimo che lo attanaglia a causa dei molti usi che si sono fatti di questo Tema in ambito extra musicale; la velatura coloristica del primo episodio dello Sviluppo che viene reso da Pires con equilibrio incredibile e fascino espressivo “sottovoce” e mai melenso.

La Sonata termina e il Teatro risponde; l’espressione facciale della Sacerdotessa cambia, torna tra i mortali… scatta su e accoglie con vera gratitudine ed un sorriso di cuore l’ovazione che le restituisce la concentrazione di energia bella che ha fino a quel momento profuso a tutti i presenti. Pochi attimi, il tempo di un paio di uscite, ed è il momento della Suite Bergamasque di Claude Debussy. Se la Sonata di Schubert era già una firma altissima, l’interpretazione della Suite è così chiaro riferimento in quanto a rispondenza testuale, timbrica ed estetica da far sì che non si possa descrivere la resa di Pires come quella di un pianista in concerto ma come la consegna ai presenti di Musica che si rivela e si diffonde esattamente per quella che è. Magnifica. La Forma del Preludio viene vivificata dal rilievo esatto ma sempre spontaneo delle molteplici varietà di articolazione agogica (tanto spesso sottovalutata da certi “interpreti” che piuttosto la concepiscono come una decorazione Liberty a posteriori, sigh!). Il Minuetto (come i tre quarti della Suite) è un omaggio consapevole ad un’Epoca lontana e alle sue fioriture, qui sviluppate… Pires lo trasla al presente grazie alla scelta intelligente e concreta di sonorità che sanno restare en dehor anche quando la sommatoria di registri ed armonie si fa più densa e trova un apice interpretativo quasi inarrivabile nelle temibili ventiquattro biscrome della terzultima battuta (da eseguirsi in glissando) che molti dei succitati “interpreti” provvedono a risolvere trattandole come scala semplice rendendo l’effetto altrettanto semplice da raggiungere… Pires no, glissa con una precisione estrema senza che mai la misurazione perfetta della singola biscroma lasci spazio a discontinuità. Claire de Lune è un discorso a sé stante, da un lato per il fatto che la matrice compositiva prenda spunto non da Forme settecentesche come gli altri tre brani ma dall’omonima lirica di Paul Verlaine (sulla quale peraltro Debussy, pochi anni prima della Suite Bergamasque, aveva già scritto una pagina per Voce), dall’altro per la vocazione di questo brano che non è sicuramente il piacevole sottofondo di pubblicità e aperitivi in terrazza così come molti oggi lo conoscono ma che invece porta in sé una vocazione “tecnologica” in quanto trova la sua compiutezza estetica e frastica nella realizzazione timbrica estrema nei diversi registri del pianoforte oltre che in un uso scientifico della pedaliera, cosa impensabile ai Tempi cui si riferiscono le Forme compiute degli altri brani della Suite. Pires anche qui ci dimostra che un interprete vero queste cose le conosce bene e, utilizzando nuances proprie alla dimostrazione dell’assunto di cui prima, offre un’istantanea lirica al pianoforte, senza inutili e melensi cedimenti, trattando l’Arte dei Respiri come un Codice che divide Bene e Male. Il conclusivo Passepied di Pires sottolinea ancora di più la cifra estetica della transizione spazio-temporale che il brano precedente rappresenta: è asciutto e scavato quando serve così come è denso di “colore musicale” nelle transizioni armoniche che raccontano di “affetti” e simbolismo (Fa# minore/La b Maggiore); arriva ad essere magico quando si ricorda all’ascoltatore di ritornare alla realtà attraverso le incantate ultime quattordici misure che, come in un sogno, congedano il “tempo che fu” per poi lasciarci svegliare. In realtà non ci saremmo voluti svegliare da questo sogno che, scoperto come realtà, fa scattare letteralmente in piedi tutto il Teatro di San Carlo ma non prima che gli ultimi armonici abbiano lasciato le orecchie… segno di rispetto sì, ma in questo caso il rispetto della sparizione naturale del suono va letta come la dimostrazione di una comprensione  condivisa e profonda della Musica. La seconda parte ha previsto l’esecuzione dell’ultima Sonata di Ludwig van Beethoven, l’op. 111 in Do minore. Questa è un caposaldo della Letteratura verso cui l’unico approccio possibile è quello dell’approfondimento e della ricerca a vita; Sonata così amata dai giovani dalle “mani facili” e a loro così poco rivelata se non che da esecuzioni come quella che Pires ha offerto in sacrificio sull’altare del San Carlo. Pur essendo costituita da “soli” due Movimenti, l’op. 111 è un testamento al pianoforte rispetto ad un percorso di crescita filosofica che Beethoven compie per tutta la sua esistenza terrena; volendo trovare una tappa intermedia sotto il profilo pianistico rispetto a questo percorso si può sicuramente pensare all’op. 57 e, andando a ben vedere, le similitudini tonali e formali non sono poche (vedasi a livello comparativo la struttura dell’Andante con moto dell’ op. 57 e dell’Arietta. Adagio molto semplice e cantabile dell’op. 111), laddove le assonanze simboliche ed estetiche sono una vera e propria conferma rispetto all’idea di percorso filosofico Beethoveniano. Pires dimostra a tutti i presenti di conoscere anche questo “segreto” e lo rivela con una semplicità disarmante sotto tutti i profili lasciando di stucco. La Luciferina atmosfera del Primo Movimento, assieme a tutti i riferimenti “terreni” che possono ritrovarvisi, viene costruita dalla Sacerdotessa Pires con lucidità impressionante: le terzine graffiano la coscienza, le quintine sottolineano un sospiro umano rassegnato, le legature “a due” e i passaggi scoperti di semicrome raccontano di un agone, le citazioni in Fugato completano una perfetta “architettura di Suoni” che si compie e diviene manifestazione fisica del Suono stesso attraverso il dominio assoluto dei pianissimi e la già citata “Arte dei Respiri”. La parola Arietta può trarre in inganno chi si approccia (e male) al lavoro Beethoveniano, lasciando pensare a qualcosa di poco importante quando invece questa tutti’altro: la semplicità, anch’essa richiamata nella successiva indicazione “molto semplice”, è la chiave di lettura che Pires adotta ma può farlo solo perché è dimostrazione di Saggezza, Esperienza e Sacrificio. Personalmente è molto difficile trovare le parole adatte per raccontare il miracolo che è l’Arietta di Maria João Pires perché, forse, non darebbero queste veramente giustizia alla catarsi collettiva che si è avuta presso il Teatro di San Carlo. Il Silenzio, assoluto; i Respiri dell’Artista che davano ossigeno anche ai convenuti che mai hanno pensato in questa Arietta di poter avere altro respiro se non quello della Musica; i Suoni, infiniti e bellissimi; l’incedere del Rito in palcoscenico, costante e perfetto; le lacrime, quelle che dal 9/16 di battuta 64 hanno cominciato ad affiorare e che, da battuta 81 sino alla fine, hanno richiesto a chi scrive di fare qualche passo indietro nel Palchetto, potendo sperimentare fisicamente una sublimazione di Suoni e Trascendenza… il compimento di un Sacrificio che permette all’essere umano di essere tutt’uno con le vibrazioni dei corpi e dello spazio circostante; un piccolo grande miracolo verso il quale non può esserci che una sola parola di sintesi: Grazie!

Il silenzio assoluto è stato poi interrotto dal fragore incredibile di una corale standing ovation,ma non prima di aver goduto di un ultimo infinito attimo di sospensione… due o tre secondi dopo gli ultimi armonici in cui c’è stato il vuoto, un vuoto che in realtà è un’intero universo. La Dimensione dove abita la Filosofia della Musica: un Tutto senza spazio né tempo, incarnato alla perfezione da una bambina di 79 anni che, con la semplicità dei Grandi e la dedizione di chi serve pienamente l’Arte, ci ricorda quanto sia necessario tutto questo.

Questo Concerto inaugurale del Festival Pianistico 2023 del Teatro di San Carlo andrebbe diffuso nelle Scuole e nei Conservatori, esempio inequivocabile per un Sistema troppe volte fine a sé stesso che troverebbe lungimiranza e ispirazione da questa concretezza del fare Arte che trasmette speranza, ricorda il Merito e invita all’azione.

Antonio Cesare Smaldone
(21 aprile 2023)

La locandina

Pianoforte Maria João Pires
Programma:
Franz Schubert
Sonata in la maggiore per pianoforte, D. 664
Claude Debussy
Suite bergamasque
Ludwig van Beethoven
Sonata n. 32 in do minore, op. 111

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