Pesaro: al ROF un Moïse per sottrazione

Trentotto anni dopo, Pier Luigi Pizzi ha chiuso il cerchio di Mosè al Rossini Opera Festival. L’azione tragico-sacra scritta per il San Carlo di Napoli nel 1818 era stata la sua seconda prova registica a Pesaro, nel settembre del 1983. Ora il festival della ripartenza segna il suo approdo alla versione francese di quell’opera, la sontuosa tragedie-lyrique Moïse et Pharaon (1827), in programma l’anno scorso ma bloccata dalla pandemia.

In realtà, come quasi sempre accade in Rossini, l’espressione “versione francese” rischia di essere fuorviante. Posto che il punto di partenza è Mosè in Egitto, del quale il compositore ha utilizzato molteplici materiali, il Moïse va considerato a buon diritto un grande capolavoro del tardo stile operistico rossiniano, una sorta di preannuncio del Tell, rispetto alla cui forte connotazione storica non deve trarre in inganno la cornice biblica della vicenda. Si tratta infatti di una drammaturgia di caratteri dalla straordinaria tensione formale e musicale: un aspro confronto fra poteri (i due personaggi del titolo), ma anche una storia di amori resi impossibili dal senso del dovere e dalla fede. In generale, la vicenda di un popolo che anela alla libertà e alla fine la raggiunge.

Oltre alla duttilità con cui Rossini maneggia le forme vocali tradizionali, piegandole a una continuità già messa a fuoco durante gli “esperimenti” del periodo napoletano ma ora vero e proprio acuminato strumento nel suo linguaggio scenico, straordinaria appare in particolare la ricchezza e la complessità della scrittura strumentale. Nel Moïse Rossini riflette più che mai sulla natura e sull’eredità del Classicismo, e lo fa con una scrittura di affascinante densità e di complessa struttura formale, quasi ripercorrendo (come ha notato Giovanni Carli Ballola) le metamorfosi della forma-sonata alla luce dell’ultima esperienza beethoveniana.

Per certi aspetti, anche lo spettacolo di Pizzi si può considerare non solo una riflessione sul Classicismo “evoluto” che qui Rossini maneggia da par suo, ma in certo modo una sorta di sintesi della sua esperienza nel teatro musicale. Uno spettacolo essenziale, tutto costruito in sottrazione, ma non in semplificazione, sempre all’insegna di un’eleganza nitida ed eloquente. Il Pizzi scenografo offre un vero e proprio “master” sulla geometria dei volumi e di conseguenza degli spazi. Il suo apparato è astratto, sintetico: elementi geometrici che in realtà non hanno nulla di egizio (l’unica piramide sarà quella che apparirà, a sua volta stilizzata nella digitalizzazione, alla fine del terzo atto), superfici lucide, praticabili che hanno insieme il valore dell’eleganza e la concretezza dell’uso. La tecnologia digitale non manca, anzi è protagonista. Ma lo è anche qui in chiave astratta, chiaramente pensata sulla linea dell’essenzialità. La grande parete di sfondo è un led wall sul quale (con la collaborazione alle luci di Massimo Gasparon) gli eventi meravigliosi e spaventosi (a seconda che li contemplino gli ebrei o gli egizi) sono rappresentati più cromaticamente che inseguendo una realtà virtuale, che da questo spettacolo è quasi sempre accuratamente espunta. Le tenebre, la luce, le acque del Mar Rosso che si aprono per far passare il popolo eletto e si richiudono sui suoi persecutori, sono notazioni visive allo stesso tempo elementari e profonde. Alludono, non rappresentano se non in rari casi. E anche la scena finale alla fine si giova di una sorta di stilizzazione che fa benissimo alla musica di Rossini, nel senso che la esalta più di qualsiasi soluzione “cinematografica”. Senza contare che teatro puro, quasi orientale è tutto il finale, in questa edizione completo di “Cantique”: dopo aver attraversato il Mar Rosso, gli ebrei in scena sono tante silhouette in controluce, corpi che si ritrovano e festeggiano la salvezza rendendo grazie al loro Dio.

Il Pizzi costumista offre un esempio di chiarezza mai banale, suddividendo le parti in conflitto – se così si può dire – con evidenza mai sfacciata, di efficace identificazione e di sicura eleganza. E il Pizzi regista chiarisce i nessi drammaturgici, giocando anche sulla passerella che circonda l’orchestra, spostando il coro con maestria pari all’efficacia fra “interni” (la scena vera e propria) ed “esterni” (la passerella). Lo stesso avviene per i personaggi. In una serie di “quadri” che scontano a volte un po’ di staticità, da considerare tuttavia anche il riferimento al genere sacro che comunque corre sotterraneo nell’opera.

Completano lo spettacolo le coreografie firmate da Gheorghe Iancu. Brillanti, narrative come si conviene all’esecuzione integrale (al ROF questa è la prassi) delle peraltro magnifiche musiche per ballo, splendidamente in stile senza ombra di sussiego o pesantezza.

Secondo una tradizione storica del festival che è stato vero balsamo ritrovare dopo un anno di quasi completa assenza, di straordinario livello la compagnia di canto. Nei due ruoli del titolo, Roberto Tagliavini (Moïse) ed Erwin Schrott (Pharaon) hanno “duellato” non solo drammaticamente ma anche nel confronto fra due voci di basso ugualmente sontuose, il primo incline come giusto a una ieraticità mai disgiunta dallo scatto dell’ira, come si conviene a un vero e proprio condottiero del nome di Jehova; il secondo offrendo al potere assoluto e spergiuro del monarca egizio una tensione sprezzante e talvolta perfino ruvida di grande impatto espressivo. Notevolissimo il debutto al festival pesarese di Eleonora Buratto, che nel ruolo di Anaï ha offerto una prova impeccabile dal punto di vista dello smalto, della tenuta sull’acuto, della ricchezza di colore, impegnandosi coraggiosamente nella coloratura richiesta dalla parte. Da questo punto di vista, il trionfo è toccato al mezzosoprano Vasilisa Berzhanskaya, che ha risolto con impeto musicalissimo le ardue agilità riservate a Sinaïde (specie nella grande Aria del secondo atto), sempre proponendo un fraseggio di formidabile forza interiore e di raffinata tornitura timbrica. Se l’Aménophis del tenore Andre Owens è parso piuttosto esangue, svettante ma poco incisivo e talvolta quasi flebile, assai bene si sono proposti Alexey Tatarintsev nel ruolo di Éliézer, Matteo Roma in quello di Aufide, Monica Bacelli come Marie e Nicolò Donini nel ruolo di Osiride. Positivo il coro del teatro Ventidio Basso in un ruolo fondamentale. Voci maschili forse più duttili e interessanti timbricamente di quelle femminili, ma omogeneità e presenza scenica di buona caratura, esecuzione in bello stile. Eccellenti i ballerini solisti nelle danze, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace.

Alla guida dell’Orchestra Sinfonicaha Nazionale RAI , Giacomo Sagripanti ha dipanato la complessa materia sinfonica della partitura rossiniana con misura ricca di buoni dettagli, trovando i colori giusti e delineando tempi forse a volte un po’troppo pensierosi, ma sempre efficacemente misurati sulla drammaturgia e sulla lettura registica. All’anteprima successo senz’ombre. Il debutto, sempre con pubblico ben distanziato e dotato di Green Pass (in diretta su Radiotre) è in programma lunedì 9 agosto.

Cesare Galla
(6 agosto 2021)

La locandina

Direttore Giacomo Sagripanti
Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi
Regista collaboratore e luci Massimo Gasparon
Coreografie Gheorghe Iancu
Personaggi e interpreti:
Moïse  Roberto Tagliavini
Pharaon Erwin Schrott
Aménophis Andrew Owens
Éliézer Alexey Tatarintsev
Osiride / Voix Mystérieuse Nicolò Donini
Aufide Matteo Roma
Sinaïde Vasilisa Berzhanskaya
Anaï Eleonora Buratto
Marie Monica Bacelli
Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai
Coro del Teatro Ventidio Basso
Maestro del coro Giovanni Farina

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