Rimini: Aroldo in equilibrio tra cruenza fascista e riconciliazione amorosa

Il debutto assoluto di Aroldo avvenne il 10 agosto del 1857 presso il Teatro Nuovo Comunale di Rimini alla presenza del compositore Giuseppe Verdi, che trascorse in città gran parte di quella lontana estate in compagnia di Giuseppina Strepponi, il librettista Francesco Maria Piave e l’impresario Cav. Angelo Mariani, intrattenendosi con intellettuali, melomani e una cittadinanza romagnola adorante; il soggiorno si concluse con la prima dell’opera che raccolse un successo e un entusiasmo ben raccontato dalle cronache dell’epoca.

L’opera si sarebbe potuta rappresentare a Bologna, secondo Verdi, ma Ricordi insisteva affinché fosse affidata agli impresari di Reggio Emilia e Rimini, i fratelli Marzi che avevano a disposizione cantanti eccellenti e un ottimo direttore emergente, Angelo Mariani. Così venne scelta Rimini per l’inaugurazione del nuovo teatro cittadino.

Nella primavera del ’56 con il librettista Piave, Verdi aveva già cominciato a rielaborare questa nuova opera rimaneggiando l’opera Stiffelio, rappresentata a Trieste nel’50 e traendo ispirazione per la nuova ambientazione dai romanzi di Walter Scott The Betrothed (Il fidanzato) e The Lady of the Lake (La donna del lago), da cui anche Rossini aveva tratto un’opera nel 1810, e da un altro romanzo Harold, the last of the Saxon Kings di Bulwer –Lytton. Vennero corrette alcune scene dei primi tre atti e aggiunto un intero quarto atto. Aroldo si svolge in Scozia: il protagonista non è più un pastore protestante ma un guerriero. Quando Piave gli aveva proposto di farne un crociato Verdi aveva opposto un debole tentativo di rifiuto: “Sono un po’ stanco di questi crociati. Qualche cosa di più moderno e di più piccante. Pensaci”.

Il compositore arrivò a Rimini la sera del 23 luglio, prese alloggio all’Albergo della Posta (poi Aquila d’oro) dove compose la sinfonia dell’opera. Verdi assisteva alle prove occupandosi dei minimi dettagli: dalla perfetta intonazione della campana che doveva suonare l’Angelus del quarto atto, ai costumi che incontentabilmente faceva fare e disfare. Nel tardo pomeriggio, dopo le prove, passeggiava con Giuseppina lungo la spiaggia riminese, allora libera dal frastuono turistico del secolo successivo.

Il direttore Mariani scriveva costantemente a Tito Ricordi riguardo l’andamento delle prove, il livello dei cantanti ecc. e che Verdi era pienamente soddisfatto. “Circa alla musica questo Aroldo è un lavoro forse dei più belli di Verdi; racchiude passi di effetto sicurissimo. Il quarto atto, che è tutto nuovo, è una cosa stupenda: trovi una tempesta in esso con coro pastorale; ed un Angele Dei, trattato a canone, di fattura musicale felicissima.

La sera del 16 agosto andò in scena la prima. La città era affollata di forestieri: ritratti di Verdi erano appesi alle vetrine dei negozi, ai muri, alle finestre. «Sulle cantonate a lettere staccate si leggeva W V.E.R.D.I. per opera del Comitato Nazionale». Al termine dell’opera ci fu un vero tripudio: Verdi fu acclamato ventisette volte alla ribalta mentre una pioggia di volantini inneggianti al compositore «sfarfallava per l’ampio teatro». Così scriveva Angelo Mariani all’una e mezza dopo mezzanotte: «Torno dal teatro, anzi dalla casa di Verdi ove ho lasciato una quantità di popolo con banda musicale, torce e ceri, evviva ed ovazioni le più frenetiche. L’Aroldo ha fatto furore, non vi fu pezzo che non fosse applaudito; il Maestro fu chiamato un’infinità di volte sulla scena. Egli ne è contentissimo, l’esecuzione fu buona […] fu chiamato al proscenio anche il caro Checchino Maria Piave e ne è così soddisfatto che non sta più nei panni…». Quindi fu allestita una gran cena in onore del compositore, su una piattaforma al mare. All’evento parteciparono molti villeggianti, signore, signori e i coristi che avevano preparato una serenata per Verdi. Che, però, fu atteso invano. Invece era presente Piave noto come eccellente forchetta.

Dopo Rimini, la vicenda venne rappresentata a Bologna, Torino, e Napoli (qui senza successo), dopodiché il nulla, solo sporadiche rappresentazioni nel ‘900 e due incisioni in studio.

La dettagliata spiegazione della metamorfosi da Stiffelio in Aroldo deve per forza esser trascurata in questa sede; già fiumi di inchiostro sono stati versati negli anni da musicologi illustri sullo spinoso e inutile confronto. Fazioni di melomani si sono sempre schierati a favore di Stiffelio, un soggetto di sottile e moderna psicologia coniugale con protagonista un pastore protestante tedesco trovatosi ad affrontare e perdonare l’adulterio della moglie; dramma che ovviamente si discosta dalle consuete tragedie melodrammatiche a sfondo storico del primo Verdi. È un dato di fatto che Stiffelio abbia avuto molta più fortuna negli ultimi decenni, scenicamente parlando, ma questo anche e soprattutto grazie alle magistrali interpretazioni di Carreras e Domingo. Non bisogna assolutamente dimenticare che Arolo venne composto dopo Rigoletto, Trovatore, Traviata, e sprattutto dopo la prima versione a Venezia del Simon Boccanegra, quindi troppo ingiustamente tale nuova opera viene sbrigativamente liquidata dai sapienti verdiani come brutta copia dello Stiffelio. Sicuramente trattasi di un ripensamento ma Aroldo è anche molto di più e in questa sede dell’Aroldo bisogna parlare nonché della sua tanto agognata rappresentazione a Rimini, che, visto il felice esito e il successo riscontrato ieri sera, potrebbe essere finalmente un inaspettato punto di partenza per future nuove produzioni di un’opera che non teme alcun confronto con tante, ma non tutte, opere verdiane.

Dopo 164 anni, quindi, finalmente Aroldo torna ad essere messo in scena nel teatro per cui fu concepito in una nuova produzione tutta “made in Emilia Romagna”. La stagione operistica riminese prevede nei prossimi mesi anche un Nabucco diretto dall’immancabile Riccardo Muti, l viaggio di Mastorna, opera fantastica in tredici atti, tratta dalla sceneggiatura originale di Federico Fellini, edita a cura di Ermanno Cavazzoni su musica di Matteo D’Amico e una Lucia di Lammermoor in Coproduzione con la Fondazione Teatro Comunale di Modena, e se poi aggiungiamo La Sagra Musicale Malatestiana, vanto musicale della città, che terminerà in dicembre e ancora attende Cecilia Bartoli con il suo Händel, l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da Alpesh Chauhan, l’Accademia Beethoven 2020 e Le Concert des Nations, Chailly e la Filarmonica della Scala e altri eventi, la stagione riminese non ha ormai nulla più da invidiare ai cartelloni dei grandi teatri italiani.

La regia o meglio il nuovo stampo drammaturgico del nuovo travolgente Aroldo a cura di Emilio Sala ed Edoardo Sanchi traspone l’ambientazione storica partendo dagli anni ’30 della guerra coloniale italiana in Africa (1935-1936) fino al 28 dicembre del 1943, uno dei tanti giorni di bombardamenti su Rimini, forse uno dei più cruenti, in cui il teatro venne quasi totalmente raso al suolo. Il punto di partenza registico-drammaturgico della nuova produzione è un parallelismo storico ad hoc tra la vicenda narrata per ambientare questo nuovo Aroldo e la storia del Galli.

Arriva un conferenziere in bicicletta: è il talentuoso ravennate Ivano Marescotti e racconta tutte le vicende legate al meraviglioso sipario originale dell’allora Teatro Vittorio Emanuele II.

Poco dopo assistiamo subito al primo colpo di scena: durante la sinfonia iniziale, accompagnata da sinistri suoni riecheggianti i bombardamenti aerei italiani in Africa, viene issato il sipario storico, ancora scuro e coperto da fumo bianco come fosse gas tossico, raffigurante Giulio Cesare che passa il Rubicone realizzato dal pittore bergamasco Francesco Coghetti, sipario che era stato semidistrutto ma conservato e salvato dal custode del teatro. I volantini che piovono dall’alto del teatro inneggiano alle pietre miliari del Fascismo: DIO, PATRIA, FAMIGLIA, DOVERE, AUDACIA, VITTORIA, SACRIFICIO, SANGUE, ONORE. Le proiezioni sullo sfondo di video storici in bianco e nero, lavoro magistrale di Matteo Castiglioni, accompagneranno tutta la serata, immagini toccanti e struggenti a tratti commoventi a tratti inquietanti.

I bombardamenti italiani in Africa aprono la vicenda, i bombardamenti alleati a Rimini chiudono la vicenda. Questa è la base registica per il costrutto drammaturgico che si gonfia sempre di più su se stesso e non avrebbe forse trovato una soluzione logica e costruttiva senza la geniale collaborazione della squadra registica e del Direttore d’orchestra. Il coinvolgimento dello spettatore è massimo, l’operazione culturale è davvero riuscitissima ma a volte viene sfiorato un limite quasi inaccettabile, a parere dello scrivente, come l’intervento nel libretto del Piave sostituendovi parole che per forza di cose devono giustificare la vicenda ad esempio: Abissinia, camerata ecc. oppure far ascoltare nel primo atto i discorsi roboanti del Duce alla folla adorante negli anni del massimo fulgore fascista, intervenendo in maniera eccesiva nello svolgimento dell’opera.  La burrasca del quarto atto, che rimanda immediatamente al temporale del Rigoletto, fa rivivere la distruzione del teatro e lo sfollamento del popolo italiano stremato. La trasposizione su più piani temporali sicuramente gioca un ruolo efficacissimo per ridonare un senso drammaturgico alla vicenda di Aroldo, che ora è un militare assai segnato dall’orrore della cruenta guerra coloniale italiana. L’amico del cuore è un ascaro eritreo di fede copta, deus ex machina dello svolgersi della vicenda, a dimostrazione del fatto che potevano e sono nati anche molti rapporti umani profondi e fraterni tra italiani e africani colonizzati.

Il bellissimo finale verdiano del primo atto viene trasformato in una festa per il ritorno di Aroldo, combattente vittorioso in divisa militare bianca che riecheggia la figura elegante del Duca Amedeo di Savoia-Aosta, viceré d’Etiopia. Sullo sfondo proiezioni di classiche feste “alla Ciano” nelle dimore di gerarchi fascisti in smoking che innalzano coppe di champagne con mogli allegre in abiti fascianti e lunghe perle, brindando alle vittorie del Duce.

Non si può negare che il peso drammaturgico di tutta l’opera cada sulle spalle di Mina, qui rappresentata come figlia del Podestà, che si lascia andare a un fuggevole tradimento con un notabile della città durante l’assenza del marito. Presente in scena quasi per tutti i quattro atti, il giovanissimo soprano russo Lidia Fridman, perfezionatosi all’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”, appare subito come una magrissima Top model fascista e fasciata in un abito rosso porpora, lode ai costumi di Raffaella Giraldi e Elisa Serpilli e ai movimenti scenici di Isa Traversi, che gioca con i suoi lunghi capelli rossi e le lunghe perle anni’30 muovendosi tiepidamente, a volte come se danzasse lentamente sul proprio destino in modo macabro e seducente, a volte spogliandosi liberamente da qualsiasi orpello estetico per far emergere la Mina lirica, autentica, pentita e dolente. Davvero bravissima, vincitrice della serata; il riascolto dell’opera nella piattaforma streaming non rende giustizia a tutte le voci del cast che in teatro risuonavano timbratissime ed intonatissime di enorme impatto, soprattutto riferendoci alla voce della Fridman che ha un timbro tipico delle voci russe quindi singolarissimo, penetrante, incisivo e dal fascino unico. Il fraseggio è curatissimo così come l’intonazione e gli acuti svettanti. La parte è onerosa, la tessitura impegnativa di Mina è risolta magistralmente in ogni punto senza minime sbavature, e già questo basterebbe a farle onore. Solo la grande aria del secondo atto è conosciuta ai melomani grazie a due incisioni: una tarda seppur fenomenale Maria Callas in studio nel 1964 e una strabiliante Monserrat Caballé in un recital di rarità verdiane nel ’68, la quale cantò anche l’intero ruolo in forma di concerto alle Carnegie Hall di New York nel ‘79.

Lidia Fridman pur debuttando il ruolo e non avvalendosi dello studio d’incisione, sicuramente non può essere paragonata a tali livelli ma non sfigura al confronto, anzi. La preghiera “salvami tu, gran Dio”, di squisita fattura verdiana, che ricorda e non fa rimpiangere quella di Giselda, ha un recitativo breve seguito da un arioso e viene ben eseguita e cesellata con molta sensibilità. La geniale grande scena del secondo atto che inizia con il recitativo ”O cielo! Dove son io?” e prosegue con l’aria “Ah! Degli scanni eterei” è cantata con ispirazione e con un registro grave penetrantissimo, ma il momento di massima intensità della prestazione è la cabaletta, ripetuta e variata, “Ah, dal sen di quella tomba”, qui il soprano si getta a capofitto nella musica senza paura e, come richiesto dal personaggio, il dovere e il rispetto nei confronti della madre in cielo le trasmettono un furore vocale da vero soprano drammatico d’agilità strappando un enorme applauso a scena aperta. Davvero una cantante a cui auguriamo una splendida carriera e che speriamo di ascoltare ancora nel primo Verdi ma soprattutto nel Donizetti delle eroine tragiche, partiture scritte su misura per lei.

Antonio Corianò è un Manrico prestato ad Aroldo, la voce è compatta, ampia e timbrata, il fraseggio caldo e profondo da vero tenore verdiano. Gli acuti facili e le mezze voci facilissime restituiscono l’intimità profonda dell’animo del protagonista, e quindi la comprensione dell’errore umano di sua moglie, il pentimento, lo sdegno, il bruciore dell’offesa, la lotta di opposti sentimenti nella sua interiorità, e infine la concessione del perdono.

Il baritono Michele Govi è un vero e proprio gerarca fascista in divisa nera, che però alterna la dignità ferita di un padre la cui buona reputazione non può essere calpestata all’umanità di un uomo che tenta in ogni modo di difendere la figlia. La voce è bella, di grande estensione. La bellissima aria del terzo atto e la terribile cabaletta seguente, una delle più ardue dell’intero repertorio verdiano è affrontata con piglio e accento apprezzabili. Inquadra bene la fierezza del personaggio e la commovente umanità che riscontriamo in tanti padri verdiani.

Il giovane basso Adriano Gramigni è Briano, l’amico del cuore di Aroldo di religione copta e profondo credente cristiano, chiave di volta per l’agire del protagonista. Grazie ai suoi ammonimenti evangelici, Aroldo evita l’assassinio del rivale e trova dentro di sé le forze spirituali per il perdono concesso alla donna amata. La voce è profonda, scura da vero basso profondo verdiano, tuonava in teatro con un calore commovente.

Ben delineato il Godvino di Cristiano Olivieri, l’amante traditore, torturato e ucciso dal padre della sua amata.

Il Direttore Manlio Benzi sul podio della sfavillante Orchestra Lugi Chreubuni disposta in platea a debita distanza, orchestra che ormai è certamente una tra le migliori orchestre italiane, ha impostato e portato avanti un accompagnamento musicale sostanzioso ed espressivamente efficace ma allo stesso tempo un tappeto musicale per il canto fatto di modulazioni armoniche, varietà e ricchezza di colori che certo non si riscontrano nelle opere giovanili di Verdi.

L’opera non si svolge più solamente per arie, duetti, romanze, cavatine e concertati, ma tende sempre più apertamente a svolgersi per scene: blocchi drammatici principali distribuiti in quattro atti, che costituiscono la chiara ossatura musicale d’un dramma assai vigoroso e toccante, che il Maestro Benzi ha messo in luce alla perfezione.

Il quarto atto che nel libretto si svolge lontanissimo dall’ambiente dei primi tre atti e si apre con cori di pastorelli scozzesi, qui divenuti muratori intenti nelle grandi opere di bonifica fascista, seguito da una burrasca e un coro fuori scena offre ai registi l’occasione di utilizzare il descrittivismo musicale verdiano per dare un senso logico alla vicenda dei protagonisti. Tutti i lavoratori della bonifica santificano il momento finale della giornata inginocchiandosi e intonando il magnifico Angelus, capolavoro verdiano, insieme ad Aroldo e Briano che rientrano nella loro dimora. I quattro personaggi si ritrovano dopo sette anni e dopo il bombardamento di Rimini del 28 dicembre del 1943 in un podere probabilmente laziale dove si sarebbero dovuti realizzare i sogni del colonialismo nazionale fascista. Le immagini proiettate dei bombardamenti, degli italiani sfollati, e del Teatro Galli distrutto sono strazianti. Mina e suo padre sono ormai due esuli, fuggitivi e decaduti, vinti dalla vita, che ritrovano Aroldo e Briano, scappati in cerca di un futuro migliore e nella speranza di dimenticare il doloroso passato.

Il violoncello e il corno inglese esprimono la disperazione di Mina e nel momento in cui la musica verdiana nel passaggio tra fa minore e fa maggiore quando la protagonista pronuncia le parole: “non torni la speme, la speme soltanto”, si compie un miracolo, un miracolo di riconciliazione moderna.

Il lieto fine non era d’uso comune, Verdi avrebbe potuto benissimo prevedere uccisioni sanguinolente tra i protagonisti come poi continuerà a fare anche in futuro, invece con un lieto fine rende chiaro il valore del perdono originato dal rispetto in un rapporto d’amore equilibrato e alimentato anche dalla fede cristiana, il cui portavoce è proprio Briano, l’amico ascaro copto che citando il Vangelo spinge senza più alcun freno al ricongiungimento finale.

Il perdono di Aroldo nasce quindi dalla comprensione reciproca di due esseri umani, viene innalzato nuovamente il sipario storico in cui la Patria sconvolta e raffigurata in alto cerca di frenare Cesare che pecca di hybris sfidando il Rubicone, ma questa volta è luminoso e la luce fonte di speranza si accende in tutto il teatro, il gioco di luci di Nevio Cavina è perfetto. Ormai i protagonisti che nella loro autenticità si sono riconciliati e riuniti, intonando lo struggente quartetto finale, spogliati di ogni veste, essenziali nella loro umanità e dignità, si prendono per mano in un teatro rinato e sopravvissuto anche ad ogni intento di distruzione e divengono un simbolo di rinascita per l’essere umano e per la cultura che tornerà a regnare nel società come fulcro di ogni aggregazione sociale permeata sul rispetto e sulla pace reciproca.

Successo pieno e caloroso per questo tanto agognato Aroldo riminese.

Renato Olivelli

(27 agosto 2021)

La registrazione dello spettacolo è visibile su Opera Streaming cliccando QUI

La locandina

Direttore Manlio Benzi
Drammaturgia e Regia Emilio Sala e Edoardo Sanchi
Movimenti scenici Isa Traversi
Scene Giulia Bruschi
Luci Nevio Cavina
Montaggio video e proiezioni Matteo Castiglioni
Costumi Raffaella Giraldi e Elisa Serpilli
Personaggi e interpreti:
Aroldo Antonio Corianò
Mina Lidia Fridman
Egberto Michele Govi
Briano Adriano Gramigni
Godvino Cristiano Olivieri
Orchestra Giovanile Luigi Cherubini
Coro del Teatro Municipale di Piacenza
Maestro del coro Corrado Casati

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