Roma: i fischi di Mefistofele sono per Stone

Anche quest’anno, per l’inaugurazione della stagione al Teatro dell’Opera di Roma, il direttore musicale Michele Mariotti ha scelto, come un anno fa col Dialogue des Carmélites di Poulenc, un’opera che ruota intorno al senso del sacro e alla compresenza di bene e male nell’animo umano, e che non veniva rappresentata da più di dieci anni tempo. Dal 2010 mancava infatti in cartellone il  Mefistofele di Arrigo Boito,  opera quanto mai popolare sebbene non apprezzata dalla critica, composta per la prima volta dal venticinquenne poeta e musicista scapigliato per il Tetro alla Scala nel 1868, dove fu fischiata senza riserve per la lunghezza monstre dei cinque atti, salvo venire ridotta e integralmente riscritta nel 1875, registrando un successo di pubblico destinato a durare.

Per il nuovo allestimento romano, coprodotto con il Teatro Real di Madrid, la scelta è caduta sul regista Simon Stone, con cui  Mariotti nel 2019 aveva diretto all’Opera Bastille  la Traviata, così detta della mucca, per la presenza di una mucca in scena, con Pretty Yende nel ruolo del titolo e nei panni di un’influencer, patita di sms su whatsapp, in abito di lamé argentato che incappa  in Alfredo fra i bidoni della spazzatura di una discoteca parigina e subito se ne innamora.

Attesissimo al debutto romano, il trentottenne australiano mondialmente celebre per il “trasloco”,  e cioè l’arte di dare veste ultracontemporanea e talvolta ultronea a opere di tradizione, onde attualizzarne il messaggio, ha concepito una sequela di quadri uniti da regia “antifrastica”, (copyright Carla Moreni)  rispetto allo spessore di musica e libretto, e perciò risultati alquanto avulsi non solo l’uno dall’altro, ma anche rispetto all’opera di Boito.

All’inizio, dopo l’ouverture a sipario abbassato, una scena di purezza geometrica color total white spettrale mostra le suore penitenti e le falangi celesti incastonate coi loro veli in un triplo ordine di feritoie. Ai loro piedi, parata sul fondo della scena, la schiera di cherubini in calzettoni e calzoncini bianchi, intona il bellissimo prologo, che Camille Saint-Saëns considerava “una meraviglia” e che non  dispiaceva nemmeno a Debussy.  Mariotti dirige l’Orchestra romana con la sua consueta acribia e la  maniacale attenzione ai salti della partitura, liberandone ogni singola  gamma, dal pianissimo al fortissimo, mentre l’eco infernale degli ottoni risuona  da sotto le poltrone della platea, e  il coro mistico delle voci bianche del Teatro romano,  magistralmente guidate  da Ciro Visco, canta la preghiera  accrescendo l’emozione.

Mefistofele spunta fuori in tuta argentata e sneakers bianche da una scaletta a chiocciola immersa in vaporosi effluvi rosso fuoco. Con le mani tinte di sangue, che lasciano la loro traccia anche sul pulpito immacolato della scena seguente, tira fuori un Ipad per cercare la sua prossima vittima, Faust, “il più bizzarro pazzo/ ch’io mi conosca… inassopita bramosia di saper/ il fa tapino ed anelante”.  Versi magnifici del poeta scapigliato che spezza il ritmo per giocare con la metrica, combina senza complessi settenari e endecasillabi, fino a occultarli gli uni negli altri e procedere al verso libero, spostando gli accenti a gogo, con sfacciata modernità e punte di atonalità. Nei panni del Demonio l’entrata in scena del Demonio John Relyea, uno dei più strepitosi bassi in circolazione, è uno dei momenti di sospesa ironia più memorabili dell’allestimento romano, altrimenti asettico,  privo di un forte denominatore comune, e a tratti persino troppo didascalico, pur volendo il regista riappropriarsi del libretto in chiave ultra contemporanea.  E infatti, nella scena del Sabba,  Stone punta sulla staticità delle anime morte,  fissando il coro immobile agli spalti di una sorta di stadio invisibile. Nella precedente scena del primo atto, la domenica di Pasqua, risolta sempre nei colori astratti del bianco latte, che cedono alle variazioni cromatiche delle luce, trasforma in un clown biancovestito con  parrucca lattea e nasso argenteo “il frate grigio” che Boito voleva “vagolante in mezzo ai campi”,  mentre i  circensi sempre bianco vestiti imbroccano cavallucci bianchi di una giostra bianca. Il vecchio Faust, testa canuta e giacca e pantaloni bianchi, interpretato dal tenore Joshua Guerrero, viene edotto dall’ottimo Marco Miglietta nel ruolo di Wagner, e segue il frate-clown nella sua officina, dove intona una delle romanze più struggenti dell’Ottocento (“Dai campi, dai prati/ che innonda la notte…” ), ma alla fine sembra cedere a una pausa come se fosse  in attesa di un applauso, che però non arriva.  L’atto secondo, con il giardino trasfigurato in una piscina di palline colorate, vede Faust ritornato giovane, alias Enrico  dai capelli neri e dagli ormoni in movimento davanti a Margherita, che saltella sul mare di palline in chemisier in lamé dorato, mentre due squinzie in minigonna verde e rosa  sollazzano  Mefistofele. Maria Agresta, dall’inizio alla fine canta meravigliosamente bene, voce piena, limpida, colorata e profonda, ricchissima di sfumature, e recita con gesti altrettanto felici e sicuri, restando la star incontrastata, anche quando, dopo la scena del sabba in cui sfila col collo sgozzato davanti le ombre immobili dei morti sulle tribune che fungono da  monte Brocken, mentre un maiale, appeso da una gamba a testa in giù  gronda sangue dalla bocca, riappare nell’atto terzo seduta per terra in pantaloni e maglietta senza maniche, con in braccio un fantolino che poi  scioglie in un asciugamano di spugna bianco, mentre uno specchio scuro alla Kapoor proietta le immagini  del suo coito ferale con Faust, della morte della madre per avvelenamento, col finto sonnifero fornito da Mefistofele, e dell’infanticidio del figlioletto, frutto del peccato. Tante altre belle trovate nella scena dell’amore ideale per Elena di Troia, come l’entrata in scena degli antichi eroi moribondi,  non bastano a riscattare la delusione per la Baggina, alias l’ospizio per anziani, dove all’ultimo atto si compie la redenzione di Faust in nome della saggezza e dell’amore, e la condanna senza remissione del suo tentatore infernale. Applausi a scena aperta, insistenti e calorosi alla fine per il coro di Ciro Visco, per il basso, il soprano, convinti per Mariotti, con fischi superiori agli applausi quando appare Simon Stone.
Marina Valensise
(27 novembre 2023)

La locandina

Direttore Michele Mariotti
Regia Simon Stone
Scene e costumi Mel Page
Luci James Farncombe
    Personaggi e interpreti:
Mefistofele John Relyea
Faust Joshua Guerrero
Margherita / Elena Maria Agresta
Marta / Pantalis Sofia Koberidze
Wagner Marco Miglietta
Nereo  Leonardo Trinciarelli
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Coro di Voci Bianche del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del coro Ciro Visco

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