Venezia: la Fille diventa avanspettacolo

La fantasiosa e sicuramente originale idea di Barbe & Doucet per La Fille du Régiment, in scena alla Fenice come spettacolo conclusivo della stagione ‘21-‘22, ha una sua favolistica ragione. Nel loro allestimento, la deliziosa opéra-comique di Gaetano Donizetti, nella quale l’amore trionfa oltre gli schieramenti bellici o sociali,  si svolge su un comò, naturalmente di dimensioni tali da riempire l’ampia scena del teatro veneziano. Così, un abat-jour arriva al soffitto, e un quadretto con un paesaggio montano innevato, o con un panorama abbellito da castello, è largo abbastanza per fare da sfondo generale; un carillon diventa enorme, un’automobilina ha le dimensioni di una vera e propria vettura d’epoca, nella quale stanno comodamente tre persone. E non manca il piccolo busto del compositore bergamasco, che assume l’aspetto di un vero e proprio monumento.

In una lunga e dettagliata intervista pubblicata nel programma di sala, i registi-scenografi-costumisti spiegano che il comò è quello della nonna quasi centenaria di uno di loro, Renaud Doucet. Un’anziana dallo sguardo straordinariamente espressivo, protagonista di un video in bianco e nero che accoglie gli spettatori al loro ingresso in sala e prosegue fino a quando l’Ouverture non si è conclusa. La vediamo nella sua stanza in una casa di riposo, attendere la visita dei nipoti con i loro bambini e poi conversare amorosamente con loro, spiegare che cosa sono gli oggetti che affollano il suo comò, fra una fotografia del marito, un bel po’ di medicinali e una decorazione in cornice appesa al muro. La videocamera va in primo piano e quando l’immagine svanisce, ecco il comò apparire, come si diceva, sulla scena della Fenice, scatole di medicine comprese.

La fille du Régiment come proiezione e ricostruzione della memoria della nonna, che da giovane fu crocerossina, è dunque il punto di partenza di Barbe & Doucet, che per questo spostano l’epoca della vicenda dall’inizio dell’Ottocento agli anni della Seconda Guerra mondiale, conservandone però il luogo, il Tirolo.

Questo non toglie che lo spettacolo, nel primo atto, funzioni essenzialmente proprio per una sua cifra largamente fantasiosa, sottolineata dall’ambientazione sostanzialmente anti realistica, giocata sul filo dell’essenziale e a suo modo caricaturale drammaturgia donizettiana. Il tutto viene sottolineato dalla sorridente semplicità di costumi che saranno anche in stile Anni Quaranta, ma sono soprattutto da illustrazione di libro per ragazzi. Questa impressione è contraddetta e quasi capovolta da un secondo atto nel quale – al netto della omogeneità scenografica – i registi sembrano voler concretizzare nei dettagli l’idea di partenza, in realtà finendo per svelarne la fragilità. Il risultato è che la brillantissima partitura di Donizetti, autentico capolavoro di ironia, ricchezza ritmica e melodica, complessità espressiva dentro e oltre il funambolico virtuosismo vocale delle due parti principali, rimane sullo sfondo, mentre vengono alla ribalta trovate da operetta se non da varietà, quasi da avanspettacolo.

Ne è afflitta soprattutto la parte recitata della Duchessa di Crakentorp, fin troppo ampliata rispetto a quella molto breve e del tutto secondaria che si legge nel libretto, qui affidata a Marisa Laurito. Si comincia con la nobildonna in tenuta da infermiera, che insegue il maggiordomo e il notaro armata di un siringone per salvifiche quanto sgradite iniezioni di vitamine. E si arriva al sottofinale, quando Laurito intona una canzone anni ’50, Arrivano i nostri. La popolare attrice napoletana è accompagnata in scena da una fisarmonica, e alla fine si rivolge al pubblico chiedendo se vogliono un bis. I figuranti in scena le rispondono che non è il caso. Nel frattempo, l’idea della memoria e della vecchiaia ha preso corpo – fuori libretto, beninteso – in una sfilata di anziani valetudinari invitati alla cerimonia nuziale (che poi non ci sarà), annunciati dal maggiordomo con titolo nobiliare e nome: il nome è quello dei medicinali della nonna, le cui scatole sono sempre rimaste visibili in scena. Tutto inutile, se non fuorviante, in un allestimento sorprendente, ma alla fine inconcludente e irrisolto.

La nuova produzione si vale comunque di una compagnia di canto di notevole livello. Marie, la temperamentosa e innamorata “fille du Régiment”, ha avuto la brillantezza scenica e soprattutto la freschezza vocale di Maria Grazia Schiavo, rivedibile forse per quanto riguarda la pronuncia francese, ma capace di superare con naturalezza convincente l’ardua coloratura approntata per la sua parte da Donizetti, con agilità smagliante e controllo quasi sempre proficuo nella zona sovracuta. Notevole anche la tenera eleganza cantabile nelle aperture patetiche che pure il ruolo riserva, specialmente nel Finale primo. John Osborn è stato un Tonio di equilibrata presenza e di florida linea vocale, elegante e perfettamente in stile. Atteso ai fuochi d’artificio dei nove Do sovracuti della celebre cabaletta “Pour mon âme” – del resto suo notorio cavallo di battaglia già sciorinato alla Fenice nel corso del più recente Concerto di Capodanno – ha risolto la pratica con lucente precisione e soprattutto musicalissima disposizione espressiva, chiarendo come la scintillante scrittura donizettiana sia un esempio di brillantezza che va oltre la performance vocale fine a se stessa. Bene anche il basso Armando Noguera, di fluente cantabilità nella parte di “padre nobile”, ancorché militare, del sergente Sulpice. Meno convincente, per il colore opaco e per la disposizione un po’ frenata sul piano attoriale, la Marchesa di Berkenfield di Natasha Petrinsky. A posto gli altri comprimari (Guillaume Andrieux, maggiordomo di sottile comicità, e Dionigi D’Ostuni, Matteo Ferrara, Federico Vazzola); ben disposto in scena e preciso il coro istruito da Alfonso Caiani.

Dal podio, Stefano Ranzani ha premuto a fondo il pedale della verve “militare”, sul piano delle accentuazioni ritmiche e dei colori pieni: un Donizetti esuberante, forse a volte un po’ sopra le righe per qualche ruvidezza dinamica, ma capace tuttavia di una generale coinvolgente brillantezza e delle opportune riflessioni patetiche, che aprono nell’opera un decisivo versante lirico e sentimentale. Non senza una lucida evidenza per l’inatteso tocco di classe del Fugato a tre voci che impreziosisce la conclusione del primo atto.

Alla prova generale, molti applausi anche a scena aperta, soprattutto per Schiavo e Osborn.

Cesare Galla
(12 ottobre 2022)

La locandina

Direttore Stefano Ranzani
Regia, scene e costumi Barbe & Doucet
Light designer Guy Simard
Regia video Guido Salsilli
Personaggi e interpreti:
Marie Maria Grazia Schiavo
Marquise de Berkenfield Natasha Petrinsky
Duchesse Krakenthorp Marisa Laurito
Tonio John Osborn
Sulpice Armando Noguera
Hortensius Guillaume Andrieux
Caporale Matteo Ferrara
Un paysan Dionigi D’Ostuni
Un caporal Matteo Ferrara
Un notaire Federico Vazzola
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Alfonso Caiani