Carlo Colombara: ricomincio ma non sul palcoscenico

Incontriamo Carlo Colombara in presenza, come oggi si usa dire, dopo parecchi anni, e l’occasione è data dalla comune partecipazione alla giuria della terza edizione del Concorso internazionale di canto Piero Cappuccilli, in corso di svolgimento a Ripabottoni, nel Molise, da cui proviene, per parte di padre, la famiglia del leggendario baritono triestino.

Mentre ci prepariamo a selezionare i sei candidati alla finale del Concorso, mi racconta di come la pandemia sia stata, per lui, un momento di rinascita: «Avevo già messo in conto di smettere di cantare. Trentacinque o trentasei anni di carriera mi sembravano più che sufficienti, avendo cominciato giovanissimo. E poi era intervenuta la moda del cosiddetto teatro di regia e ogni spettacolo cui partecipavo mi faceva venire la gastrite. Tentavo di comunicare con i registi, ma non era possibile».

C’era in programma un nuovo debutto? «Sì, nei primi mesi del 2018 ero a Dresda per il mio primo Inquisitore nel Don Carlo di Verdi. Le recite erano programmate a Dresda e a Salisburgo. Avevamo cominciato le prove di regia che furono interrotte dall’orchestra per timore del contagio alla prima prova d’assieme. La produzione fu annullata e riuscii per un soffio a rientrare a Bologna volando da Berlino facendo scalo a Monaco».

Come visse il confinamento? «Cominciai  a maturare l’idea di smettere con l’opera, cosa che ho fatto. Mi ero dato un limite di tre o quattro anni al massimo, ma la pandemia ha velocizzato la decisione. Mi sono subito sentito meglio. La maggior parte delle persone è ingrassata durante la pandemia, io sono dimagrito. Dormivo tanto, mi depuravo del troppo stress accumulato negli anni».

E poi? «Ho cominciato una nuova carriera al termine del periodo di contagio. Concerti, anche di beneficienza, moltissime masterclass. Le faccio con piacere, la voce è ancora fresca e sono in grado di trasmettere quello che in tanti anni ho appreso sul canto anche con gli esempi. Vedevo che gli allievi imparavano in fretta e ho capito che era la strada giusta».

Da due anni e mezzo ha fondato un’Accademia a Bologna, non è vero? «Sì, assieme a un collega, Fulvio Massa, che è un tenore specializzato nell’operetta, abbiamo aperto, alla periferia di Bologna, l’Accademia Paride Venturi intitolandola al nostro Maestro. Organizziamo lezioni, sia in presenza sia da remoto per i tanti allievi che ci seguono da lontano. Ospitiamo colleghi in grado di trasmettere qualcosa che noi non siamo in grado di fare, mi viene in mente Luciana Serra con le sue lezioni sulla coloratura, facciamo lezioni noi stessi. Ora abbiamo in mente di mettere in scena noi, con le nostre forze, delle opere. Quest’anno Le Nozze di Figaro, il prossimo La Bohème e ».

Il legame con Bologna è forte, pare di capire… «Con la città sì. Quei pochi parenti che mi restano, li ho a Bologna, dove vivono molti amici. Con il Teatro Comunale, dove ho iniziato, no. Nel 1998 feci un Don Carlo che ebbe molto successo, ma finì lì. Non mi chiamarono più. E dire che a Bologna i cinque palchi quando cantavo io, andavano via, perché la mia famiglia mi seguiva. Mi offrirono Nabucco ma la proposta economica era inaccettabile e dissi di no».

E il futuro com’è? «Mi ha avvicinato un agente, Virgilio Fedeli con cui siamo amici, e mi ha convinto a riprendere la carriera. Ho posto le mie condizioni, niente più palcoscenico, niente trucco e parrucco, ma concerti sì. Per il momento mi ha già procurato d’incidere Sparafucile in Rigoletto per la Decca a Londra. Terminato l’impegno nel Molise, parto per il Giappone dove resterò un mese impegnato fra master e concerti. E poi c’è l’Accademia, che nel frattempo è stata ufficializzata…».

Domanda d’obbligo, voci ne abbiamo? «Sì, le voci ci sono. La crisi è dei maestri di canto, e non è solo italiana. Per carità non voglio generalizzare, ce ne sono di molto bravi, ma in generale sento voci molto buone che sono portate a diventare produttrici di suono, ma non a comunicare emozioni».

Rino Alessi

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