Forlì Open Music in Sei Movimenti

Uno sguardo alla settima edizione della rassegna che ad Area Sismica indaga la contemporaneità

  1. Esploratori spaziali

Gleam: Luigi Ceccarelli elettroniche, regia del suono / Gianni Trovalusci flauti

Forti di un recente e convincente progetto discografico – Gleam per Folderol – Ceccarelli e Trovalusci ci regalano molte emozioni. La vicinanza tra il live electronics, il suono sintetico e l’estrema fisicità del flauto non stride, anzi funziona alla grande. Trovalusci usa, con sopraffina maestria, quasi tutta la famiglia dei flauti, come una ricca tavolozza dove attinge colori, pastello, scuri, brillanti. Disegna, modella fraseggi astratti, attraverso slap, soffi, fischi e sospiri che Ceccarelli, da gran maestro artigiano del suono, carpisce, fa suoi, li smonta e ricompone, li restituisce come composizione nuova, con la quale il flauto ritrova se stesso. Questa peculiarità, gioco circolare estraniante di specchi, dove i suoni rimbalzano e si moltiplicano ci fa perdere nei meandri più profondi di una esplorazione anche meditativa. Verso il finale Trovalusci usa uno dei suoi lunghi tubi, cambia il mondo sonoro che si fa più ancestrale, per poi chiudere con il flauto in Do, in un ambiente quasi celestiale.

  1. Com’è bello il rumore!

Cadaver Mike: Eks (Guido Marziale)elettroniche, giradischi – Tricatiempo (Stefano Costanzo) batteria

 Nell’analisi del costante parossismo rumoristico del duo si alternano e sviluppano    anche momenti, spazi dove si salvaguardano le singole tracce strumentali messe in gioco. Ne occupa di più Costanzo che alterna un uso tradizionale della batteria, pregevole al rullante, con la messa in gioco di oggettistica varia che arricchisce non solo le possibilità coloristiche ma anche la costruzione e lo spessore del flusso sonoro. Marziale rimane un po’ dietro, con i vinili lancia, somma e moltiplica tracce diverse, voci, strumenti, ambienti, con l’elettronica le espande, le elabora anche in modo sofisticato. Ma il rumore, spesso al limite dell’udibile, non è per i due il fine del progetto, ma uno spazio vitale dove creare, confrontare e sviluppare un possibile dialogo tra la forza tellurica e primordiale del tamburo con le tecnologie contemporanee. Quando   questi due mondi si incontrano, si sfiorano, il duo funziona, risulta esteticamente coerente, anche se i volumi delle percussioni penalizzano spesso il compagno di viaggio. Quando si allontanano, perdono il filo, emerge una certa fragilità, emergono aspetti didattici, si perde il senso.

  1. Il pezzo che non finisce mai

                        CKE/Chigiana Keyboards Ensemble: Alessandra Gentile pianoforte – Stefania        

                        Redaelli pianoforte – Luigi Pecchia pianoforte – Pierluigi Di Tella pianoforte 

Simeon Ten Holt (1923-2012) è tra i compositori dell’area minimalista forse meno conosciuto rispetto ai più acclamati Reich, Glass, Riley, La Monte Young. Sul palco della Sala Sangiorgi dell’Istituto Masini di Forlì ci sono ben quattro pianoforti a coda, luccicanti. Canto Ostinato è un’opera scritta dal compositore olandese nel 1976, la caratteristica ripetizione di diverse cellule musicali offre anche la possibilità agli esecutori di poterle organizzare in un percorso personalizzato autonomamente. Un pezzo praticamente sempre diverso per struttura e durata. Come un’onda leggera parte una tastiera con un nucleo melodico accattivante, gli altri entrano con tempistiche diverse, singole note o accordi distorti. L’impasto è suggestivo e dissolve lentamente la traccia iniziale. Tutto poi si ricompone, i contrasti sfumano, cambiano le altezze, colori, ritmi e volumi, i quattro si riallineano. Se fosse utile accennare qualche allusione potremo citare Michael Nyman, ma anche, per chi frequenta ambienti jazzistici, certe costruzioni melodiche jarrettiane. Ogni tanto spunta una breve frattura, l’estraniante matematica della ripetizione viene messa in crisi da un’onda lunga e omogenea sempre più melodica e sdolcinata. Si entra in un ambiente pop che ci accompagna fino alla fine, dopo circa 70’. Peccato che le premesse, gli eccitanti attriti iniziali dell’opera si siano dispersi a favore di un panorama piatto che non offre più appigli, visioni ed emozioni.

  1. La poesia non basta

                         Pelli Verdi: Bayza Cakir voce – Lorenzo D’Erasmo percussioni – Guglielmo Prati                       elettronica – Walter Prati violoncello, elettronica.

La voce della Cakir ci conquista subito. È contemporaneamente sommessa, profonda e sinuosa, ci racconta con parole che non capiamo – in turco, la sua lingua – qualcosa che ci piace. La sua non è una canzone, non è una preghiera, non è un canto popolare, ma è un po’ di tutto questo. Sapremo poi che il testo è tratto da una poesia d’amore di Nazim Hikmet, il rivoluzionario romantico, una garanzia. Intorno a lei cresce dal silenzio una trama sonora che avvicina il sapore etnico dei tamburi a cornice di D’Erasmo al violoncello elettrificato e ai dispositivi elettronici. La voce alterna silenzi, spazi dove gli strumenti a rotazione lasciano una propria traccia, a momenti che vanno dal declamato al parlato, tra crescendo ritmici e motivi danzanti. L’elettronica fa come da catalizzatore, riunisce i suoni, elabora fondali. Ma lo sviluppo del progetto, stimolante nei presupposti, avvicinare poesia, paesaggi e storie esotiche ai suoni d’oggi, pare non trovare un momento di sintesi, i materiali messi in gioco, anche piacevoli, rimangono isolati. Questa fragilità di fondo lascia alla fine la sensazione di aver assistito a qualcosa di incompiuto.

  1. La bellezza dei sentimenti

                        Ciro Longobardi pianoforte

 

Quando si incontrano un grande compositore e un grande interprete il risultato pare scontato. Ma l’incontro tra Longobardi e Inner Cities 12 di Alvin Curran nello spazio magico, quasi buio dell’Area Sismica ci offre qualcosa di più. La lettura di un capitolo della serie Inner Cities, in totale 14 brani, dedicati da Curran a Helen Carter, moglie di Elliott (uno dei suoi maestri) ci dice di più. Ci dice che un interprete può mettersi in gioco superando, ampliando una pur pregevole adesione totale alla pagina scritta. Curran si presta ad essere vivisezionato perché lascia spesso tra le righe libertà interpretative, vuoti creativi da riempire, ma che vanno carpiti. Longobardi li carpisce, li usa per sottolineare, accelerare, sfumare, drammatizzare questo o quel momento.  Inner Cities 12 è un lavoro di una forza emozionale notevole. Un’avventurosa camminata tra sprazzi melodici, ripetizioni, ingorghi scuri, sapore di legni, cascate luminose, silenzi feldmaniani e grumi free. Allontanando schematismi, spazi chiusi, Curran modella un’opera dove tutto il materiale è vibrante e vitale, dove i sentimenti ci raccontano bellezze, dolori e passioni. Longobardi completa l’opera mantenendo la giusta distanza, con tocco e gesto concreto ma anche sognante, rigore e pulizia del suono, guidato dalla saggia pazienza di chi cerca tra le note un senso che le travalichi.

  1. Flusso magnetico

 

                        Ingrid Laubrock sassofoni – Brandon Lopez contrabbasso – Tom Rainey batteria

 

Che meraviglia! Non si può che esordire così. Tre grandi musicisti non garantiscono sempre un gran trio, in questo caso sì. L’intesa di Laubrock, Lopez e Rainey è fulminante. Improvvisano, cambiano scenari, suonano insieme, sfoderano assoli unici, si divertono liberi. Il linguaggio jazz si diffonde in mille schegge impazzite, in direzioni diverse, guardando indietro ma soprattutto avanti, jazz contemporaneo. Rainey trova nella sottrazione, nella sintesi, nella semplicità originaria di tempi limpidi e sospesi la strada nella quale indica percorsi, strutture ritmiche, che poi anche gli altri percorrono. Predilige il rullante che usa con una raffinatezza unica, mazze felpate, bacchette ma soprattutto spazzole che vibrano come farfalle. Lopez è alla continua ricerca del suono più che del contributo ritmico. Il legno dello strumento diventa una percussione che permette infinite soluzioni per creare ambienti magici. Ma le corde le sa usare e come. Attraverso un’energia molto fisica, suono aperto, scuro, profondo, nel pizzicato, sognante e intrigante con l’archetto. La Laubrock esprime un’urgenza comunicativa costante, come un piacere rabbioso di suonare.  Frequenta i progetti di Braxton, ma il suo tenore ricorda soprattutto Shepp, nel tono sporco e rauco, nei vibrati, nei dislivelli di altezza, intensità e ritmo. Al soprano è più delicata e non può non rimandare a Lacy nell’esplorazione dei registri e delle possibilità espressive. La somma di queste personalità non ci poteva che regalare un concerto indimenticabile.

Paolo Carradori
(3-4-5 novembre)

La locandina

FORLI’ OPEN MUSIC 2023
3/4/5 Novembre
Area Sismica  /  Istituto Masini

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