Genova: se Foscari muore al Carlo Felice

Dopo decenni di assenza, tornano sul palcoscenico genovese i Due Foscari, opera dei cosiddetti anni di galera di Giuseppe Verdi, che vede protagonista la figura di Francesco Foscari, doge della potente Venezia del 1400, attorniato dal figlio Jacopo e della di lui moglie Lucrezia Contarini, vittime tutti quanti del malevolo Jacopo Loredano e delle sue cospirazioni. Torna quest’opera con un cast vocale di primissimo ordine, nella produzione del Teatro alla Scala di Alvis Hermanis, che oggi come allora evidenzia alcune lacune e desta perplessità. Trama non delle più complesse, quella dei Foscari, dove si sviluppano gli ultimi momenti di vita del doge Francesco Foscari, costretto a vedere impotentemente il proprio figlio Jacopo condannato per colpe non sue, esiliato e poi morente, infine esautorato del proprio potere. Il dramma di un padre, il dramma di un figlio e della moglie: quando il dolore privato si interseca col pubblico potere, quando amore e morte in musica creano il melodramma.

Dopo il battesimo al Teatro alla Scala nella stagione 2015/2016, viene riproposta la produzione di Alvis Hermanis, con i costumi di Kristìne Jurjàne, le luci di Gleb Filshtinsky e i video di Ineta Sipunova. Ritroviamo la tradizione, ritroviamo il voler mettere al centro dell’attenzione la Venezia del ‘400 ed il potere/ruolo del Doge, facendo sì che sia la musica di Verdi a narrare, a descrivere, a raccontare. Di sicura presenza è il leone veneziano, simbolo assoluto di quel potere che nei secoli fece temere la Serenissima e che ritroviamo persino nella scena del sogno di Jacopo Foscari: i “mille e mille spettri!” che nella notte affliggono lo sventurato, sono rappresentati da più pose e dimensioni dei leoni, a rappresentare come incubi e tormenti siano generati da ragion di Stato. Le scene sono semplici, essenziali, addirittura spoglie, giocando molte sulle numerose proiezioni di tele e dipinti di epoche e pittori diversi, con un forte richiamo al Quattrocento veneziano. Il finale dell’opera, con il forzato abbandono del potere e la morte del Doge Foscari, verte tutto intorno al letto a baldacchino dello stesso, attorniato dal Consiglio dei Dieci e dai vari cortigiani. Consiglio dei Dieci costituito da dieci 10 giovani ballerini e ballerine, preparati e coreografati nelle non memorabili movenze di Alla Sigalova. Se l’occhio può risultare ammaliato dalla ricca riproduzione di tele e dipinti, sicuramente lo è meno dall’idea stessa di regia, dallo scavo dei personaggi, dallo sviluppo di una trama già di per sé non forte, che necessiterebbe quindi di una drammaturgia rinvigorita dalla ricerca di dettagli, rapporti e intenzioni che Hermanis non affronta, lasciando spesso i cantanti in balia di sé stessi, demandando agli stessi la ricerca di un’interpretazione che, come vedremo, non sempre è riuscita.

Renato Palumbo torna sul podio dell’Opera Carlo Felice di Genova in un repertorio a lui congeniale, essendo assiduo e navigato frequentatore di Verdi, con risultati talvolta altalenanti. Le dinamiche sono quelle a tutti e tutte note, di un Verdi galoppante, deciso, dove la musica la fa da padrona con lo schema dove scene, arie, romanze e cabalette si susseguono, alternando i momenti più intimi e i duetti amorosi, i terzetti e le grandi scene corali. La direzione è brillante, sicura, ponendo attenzione agli accenti e alle dinamiche che la partitura offre, divenendo un po’ discontinua nei momenti corali (fin troppo accelerato il coro nel “Al mondo sia noto, che qui contro i rei, …”). Ciò non toglie la perfetta simbiosi tra buca e palco, senza perdere nemmeno una nota lungo la via, facendo emergere la drammaticità dell’opera e dando libero sfogo alle doti vocali dei protagonisti. L’efficacia della resa musicale la si deve anche all’Orchestra, capace di seguire tutte le dinamiche direttoriali, con una pulizia di insieme ottimale ed una restituzione del primo Verdi ricca e travolgente; efficacia che troviamo anche nel Coro, istruito sempre in maniera eccellente dal maestro Claudio Marino Moretti, che può godere della composizione musicale, che esalta le parti d’insieme con pagine significative e ricche di passione, intenzioni ed espressioni.

Plaudiamo alla direzione artistica per essere riuscita mettere insieme un cast vocale di eccellenza, dando i giusti motivi di apprezzare la partitura dei Foscari spesso bistratta o classificata “Verdi minore”. Franco Vassallo debutta nel ruolo dell’anziano padre e doge, centrando a pieno l’obiettivo: artista navigato e di decennale carriera, sa esaltare la figura dell’uomo, del politico, del padre, dando espressività in ogni singolo momento che ne richieda la presenza in scena, raggiungendo la massima esaltazione nel finale. “Questa dunque è l’iniqui mercede” è cartina di tornasole del canto e del teatro, lì vi è la realizzazione che tutto è finito, che tutto cessa. Nonostante il passare del tempo, la voce del baritono lombardo resta solida, piena e sempre protesa in avanti, dando senso alle parole e seguendo sempre la linea della direzione d’orchestra, sapendosi ben bilanciare rispetto agli altri protagonisti che, in quanto a voce, non han fatto mancare la propria presenza.

Al vissuto padre, si contrappone Fabio Sartori nei panni del figlio Jacopo Foscari, disegnando un figlio riflessivo, contrito, pronto ad affrontare il proprio destino ormai segnato: il canto di Sartori è ricco, la voce corre per tutta la sala, imponendosi per accento ed intenzione, in particolare nella scena del sogno. Manca piuttosto la tragicità interpretativa, evidenziando la mancanza di scavo del personaggio a livello registico e l’attenzione continua data all’essere in buona intesa con il podio. Ciò, tuttavia, non inficia l’ottima esecuzione musicale che, irrimediabilmente, crea godimento nell’ascoltatore.

Godimento dato ancor più maggiormente dal soprano Angela Meade, pienamente nel suo repertorio, dove qualità e capacità vocali vengono messe totalmente in campo, fugando ogni dubbio su chi possa essere oggi la Lucrezia Contarini d’elezione. Meade usa tutta la voce, seguendo tutte le dinamiche che la parte richieda, dal canto sfumato ai piani e pianissimi, per poi travolgere nelle cabalette e nelle riprese (strepitosa la puntatura nella ripresa del “O patrizi, tremate.. l’Eterno”), completando nei duetti e terzetti, sovrastando nelle scene d’insieme. Questo è il suo Verdi, questo è il suo repertorio: Angela Meade lo sa e tutti noi ne godiamo. Accanto a questo tris d’eccellenza, si inseriscono i cortigiani che manipolano e assistono le vicende dei Foscari.

Antonio Di Matteo veste e canta i panni del temibile Jacopo Loredano, dando risalto alla sua ricca voce di basso, attenta e sospirata come si conviene ai migliori cospiratori, sempre in linea con le indicazioni della direzione. Saverio Fiore è chiaro ed incisivo nella parte di Barbarigo, mentre Marta Calcaterra è la fedele Pisana, sempre accanto a Lucrezia e ai figli di lei e Jacopo Foscari. Completano il cast il Fante di Alberto Angeleri e il servo del Doge di Filippo Balestra.

Ricca presenza di pubblico all’ascolto di un’ottima rappresentazione dei Foscari, con manifestazioni di forte entusiasmo per i tre protagonisti: noi contenti, si spera anche il buon maestro Verdi!

Leonardo Crosetti
(2 aprile 3023)

La locandina

Direttore Renato Palumbo
Regia e scene Alvis Hermanis
Costumi Kristìne Jurjàne
Coreografie Alla Sigalova
Luci Gleb Filshtinsky
Video Ineta Sipunova
Personaggi e interpreti
Francesco Foscari Franco Vassallo
Jacopo Foscari  Fabio Sartori
Lucrezia Contarini Angela Meade
Jacopo Loredano Antonio Di Matteo
Barbarigo Saverio Fiore
Pisana Marta Calcaterra
Fante Alberto Angeleri
Servo del Doge Filippo Balestra
Orchestra, Coro e Tecnici dell’Opera Carlo Felice Genova
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Balletto Fondazione Formazione Danza e Spettacolo “For Dance” ETS

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