Maurizio Pollini, o l’asfissiante meccanismo della ragione

Riapre i battenti Ferrara Musica, scegliendo come molte istituzioni di cautamente anticipare solo parte della propria programmazione. Una cautela che però non ha in nessun modo inibito la scelta dei programmi: l’11 novembre Alexander Lonquich e l’Orchestra da Camera di Mantova intraprenderanno l’integrale-maratona dei Cinque Concerti di Beethoven, il 16 Stefan Milenkovich suona con l’Orchestra Haydn diretta da Steinaecker, il 23 Lucchesini al pianoforte, il 30 Marco Rizzi al violino accompagnato da Roberto Arosio, il 9 dicembre il Quartetto di Cremona, il 14 il Trio di Parma, il 18 gennaio Richard Galliano con il Quintetto dei Solisti Aquilani. Insomma, Ferrara si conferma come uno dei centri musicali italiani per qualità e internazionalità della proposta, ancor più da quando è sede della European Union Youth Orchestra. Il ruolo di inaugurare una stagione di tale slancio è stato affidato a Maurizio Pollini.

Ora, Maurizio Pollini è una figura assai divisiva, forse da sempre, e il suo concerto ferrarese non è stato da meno. Sarà mia cura cercare di essere il più lucido possibile nell’osservare ciò che è accaduto nel corso della serata: perché qualcosa è accaduto e non vi si può sorvolare facilmente. Il programma aveva alcune differenze sostanziali rispetto a quello tenuto alla Scala a fine settembre. Si è aperto sempre con i Tre Intermezzi op. 117 di Brahms, ma al posto dei previsti Tre pezzi per pianoforte op. 11 di Schönberg previsti ha optato per i Sei piccoli pezzi op. 19. A completare la prima parte un ulteriore sguardo nel Novecento con … sofferte onde serene … di Luigi Nono, eseguito dal pianista milanese con la regia del suono di André Richard. Dopo un breve intervallo, Pollini ha affrontato non le due Sonate di Beethoven op. 110 e 111 come a Milano, bensì la monumentale Sonata op. 106 “Hammerklavier”. Anche solo pensare di affrontare la Hammerklavier a 78 anni è un’impresa titanica, ma ne parleremo a tempo debito.

L’inizio del concerto è stato in realtà piuttosto lento. I primi due Intermezzi di Brahms non sono riusciti a trovare subito un’espressività consona, non tanto per qualche nota sporca o per la ben nota tendenza di Pollini di cantare più mugugnando che con le dita, ma proprio perché una certa ansia ne ha caratterizzato tutto l’andamento, non lasciando spazio per sguardi crepuscolari o di commossa gentilezza, né permettendo che la solidità della struttura (sinfonica persino in questi brevi brani, per il pianista) riuscisse a trovare un centro. Ben diverso è stato il caso dell’Andante con moto, l’ultimo Intermezzo, in cui di colpo qualcosa è cambiato, l’inizio ombroso ha assunto le fosche tinte di una marcia interiore, per poi aprirsi nella sezione centrale, che però non ha mai abbandonato una sensazione di tortuosa ponderosità. Non c’è abbandono lirico in Pollini, il rubato è distribuito con parsimonia e prevalentemente per mettere in risalto qualche sfumatura armonica o di fraseggio, mentre il timbro appare sempre il suo: nitido, diretto, scevro di orpelli e fronzoli, persino sgradevole ma sempre di grande presenza. Questi aggettivi potrebbero far presagire grandi cose sui due brani successivi, i Sechs kleine Klavierstücke di Schönberg e … sofferte onde serene … di Nono, e senza dubbio la lucida, terrificante razionalità di Pollini ben si presta ad autori la cui storia dell’interpretazione il pianista milanese ha fatto. Ma in un momento storico in cui della Seconda Scuola di Vienna si recuperano le origini tardo-romantiche e il dramma espressionista, anche attraverso una riscoperta intensissima dell’opera di autori come Mahler e Zemlinsky, fino a Korngold, la fredda lucidità di Pollini è andata in direzione ostinata e contraria. Pollini legge queste miniature come raffinatissimi distillati di un astratto pensiero, non sempre centrandone le richieste dinamiche, ma soprattutto quelle caratteriali. Si prenda il Quarto Pezzo, Langsam, in cui nessuna dinamica supera il piano. Non solo Pollini al pianissimo a quattro p di una voce centrale della sinistra ha preferito un discreto mezzoforte (costringendo la voce centrale della destra a saltare da piano ad un netto forte), ma è passato sopra a indicazioni quali mit sehr zartem Ausdruck (con espressione dolcissima) che, seguito nella battuta successiva da un “subito a tempo” evoca chiaramente un rubato, una parentesi espressiva. E similmente si può dire per la subito seguente nona e ultima battuta della miniatura: wie ein Hauch, come un respiro, chiede Schönberg, e le impalpabili sonorità dei due accordi si spengono sui due ottavi finali, di nuovo su un pppp, peraltro tutto tenuto sotto corona, con un edonismo sonoro che non teme confronti con i più sordidi olezzi pseudoimpressionisti di maniera. Ebbene, Pollini passa sopra a tutto questo, per tirare fuori dalla bianca carta (che non gli è servita nel concerto, il pianista ha suonato tutto a memoria salvo Nono) lo scheletro della forma, incidendone carne, sangue e muscoli chirurgicamente. I sei piccoli brani diventano veramente sintesi di un pensiero, raffinato in contorti alambicchi fino a distillarne quella che si suppone essere la vera essenza, ma ciò che si perde è tanto: il passo tra “sintesi” e “sintetico” è breve e con esso la sensazione di artificialità. Similmente si può dire per … sofferte onde serene …, in cui ovviamente questo approccio era ben più di casa e con cognizione di causa vista la genesi congiunta di questo lavoro tra Nono e Pollini: ma come sempre anche quella dell’interprete di riferimento non è che una delle versioni possibili. Una più intensa tensione nervosa, che nel brano origina dal costante tendere tra sofferenza e serenità, tra alte e basse maree sonore, e che si invera nel dialogo tra il pianoforte e il suo doppio magnetico, avrebbe potuto animare l’esecuzione di Pollini, che è apparso più preoccupato di riuscire a leggere dalla parte continuando a spostarsela sul leggio, di fronte all’impotente voltapagine, cui va tutta la mia solidarietà.

Che una parte di quest’ansia sia dovuta alla consapevolezza di ciò che doveva arrivare dopo e all’impegno che questo avrebbe richiesto ai propri mezzi tecnici fisici e mentali, finora all’altezza del trascendente ma non trascendentale repertorio presentato in prima parte, penso sia comprensibile. La Hammerklavier è una sfida per un pianista di ogni età e con mani e braccia ben più sciolte di quelle del Pollini settantottenne, ma consente alcune considerazioni forse banali ma comunque importanti nel parlare del pianista milanese. Trovarsi di fronte all’Allegro iniziale (o se è per questo, anche allo Scherzo) pone di fronte alla semplice constatazione che Pollini non respira. Non prende fiato, mai, non interrompe in nessun modo e per nessuna ragione il fluire dei folli metronomi che si sceglie, andando in un’apnea espressiva che nei primi due tempi ha portato più volte ad una perdita di senso. Non sono certo le note sporche o il meccanismo inceppato a impedire l’espressione (anche se la consapevolezza della propria fallibilità accresce sicuramente quest’ansia), ma la confusione di alcuni momenti nell’ampio sviluppo del primo tempo e la perdita di dettagli e tensione ritmica nel secondo ti portano a considerare se Maurizio Pollini non abbia scelto un boccone troppo grande da masticare. È dunque così? È giunto il momento per il grande pianista milanese di scegliere un repertorio più intimo e sobrio o di accettare il ritiro? A mio avviso no.

Se i primi due tempi della grandiosa Sonata op. 106 sono infatti apparsi poco centrati, ormai è abbastanza assodato che a Pollini serva un po’ di tempo per riscaldarsi e mettere in modo la macchina. Quello che è successo nell’Adagio sostenuto, infatti, è stato semplicemente oltre. Mi è capitato di sentire più volte la Hammerklavier recentemente, dalla lettura sonnambolica di Lonquich all’intensità espressiva del giovane Pantani, ma qui ci siamo trovati di fronte a qualcosa di molto diverso. Il non-respiro di Pollini ha portato ad un non-canto asfissiato, allucinato da un dolore colmo di insofferenza nei confronti della vita, un fastidio trascendentale reso ancor più implacabile dal meccanismo razionale che, senza languore né riposo, si rivolge inesorabile contro se stesso, divorando tutto ciò che trova a causa della lucida coscienza del proprio malessere. Un’insofferenza nei confronti di sé che si trasforma in insofferenza nei confronti del prossimo, da cui erompono dei singoli momenti di luce. Eppure, con tale fardello bisogna vivere, sembrava dire Pollini. Non nascondo che più volte mi sono chiesto se questo non fosse proprio il tardo Beethoven, nei suoi complicatissimi rapporti con sé e con i pochi amici, ormai perso nei tortuosi meandri della propria apparente autarchia. E a questo Adagio, che non esito a definire sublime perché tale era anche per chiarezza formale (ed infatti è letteralmente volato in un batter di ciglia nonostante la lunghezza sinfonica!), Pollini ha fatto seguire un sorprendente Allegro risoluto. Non che mancassero le note sporche e gli inciampi, ma nel grandioso meccanismo di questa Fuga a tre voci, con alcune licenze era come se a qualche ingranaggio mancasse un dente: completamente noncurante Pollini procedeva inesorabile, sfoderando in alcuni passaggi la zampata del leone, dimostrando come non tutti i gesti virtuostistici (o, nel caso di questa fuga, semplicemente difficilissimi) gli siano preclusi. Mancavano dettagli, certamente, ma quella ossessiva pienezza sonora che nel primo tempo era un tappeto uniforme e confuso, dopo l’Adagio ha assunto un carattere completamente diverso ed è stata portata da Pollini avanti con uno streben, una direzione, una tensione che risultavano eccessivi e al contempo tenevano incollati alla poltrona. E dopo i grandiosi trilli in fortissimo, da Pollini interpretati quasi come un’affermazione finale dell’inesorabile meccanismo razionale della fuga, senza luce e senza gioia, il pubblico è letteralmente scattato in un applauso roboante, quasi incredulo. C’era una dose di affetto e, perché no, persino fanatismo in questo entusiasmo? Certamente sì, come d’altronde accade con ogni grande pianista. Ma era ben lungi dal ridursi a questo. Io stesso, andato al concerto col timore di trovarmi nel mastodontico capolavoro beethoveniano di fronte a una disfatta, mi son scoperto sorpreso. C’è ancora tanto che Pollini può dare, forse con una consapevolezza umana più approfondita che mai, persino su brani di questa portata.

Alessandro Tommasi
(20 ottobre 2020)

La locandina

Pianoforte Maurizio Pollini
Programma:
Johannes Brahms
Intermezzi op. 117
Arnold Schönberg
3 Klavierstücke op. 11
Luigi Nono
…Sofferte onde serene…
(regia del suono di Andrè Richard)
Ludwig van Beethoven
Sonata op. 106 “Hammerklavier”

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