Riapertura dopo il virus? Ultimi verranno i teatri

«Dovranno essere studiati di nuovo i teatri, gli stadi, i cinema, gli aerei, perché contengano meno gente e meno ammassata». Intervistato da La repubblica, Jeremy Rifkin, il guru della “terza rivoluzione industriale”, non si è accontentato della visionarietà che ne ha decretato la fama internazionale di economista alternativo ed ecologico (peraltro spesso accompagnata da aspre controversie), ma ha indossato i panni dell’apocalittico, regalando una distopia raggelante sui destini – fra molti altri ambiti – della civiltà dello spettacolo.

Per affermare l’avvenuto crollo del modello di sviluppo prevalente nell’ultimo trentennio, ovvero la fine della globalizzazione, Rifkin ha delineato uno scenario catastrofico, nel senso etimologico del termine, di radicale e definitivo capovolgimento delle situazioni. E dunque ha proclamato, per la verità molto apoditticamente (e comunque, prematuramente), il collasso dell’aspirazione al controllo scientifico sulla vita e sul mondo da parte del genere umano, premessa inevitabile per la nascita della società del distanziamento permanente di sicurezza sanitaria, corredato di mascherina.

Non è chiaro per quale motivo la messa a punto del vaccino anti-coronavirus (che pure non viene esclusa) non dovrebbe portare al recupero di socialità che da qualche millennio almeno contraddistingue il genere umano a dispetto di ogni ricorrente fenomeno epidemico. Ma i teatri letteralmente svuotati dall’interno, o costruiti ex novo sulla base delle nuove necessità, per fare in modo che nessuno stia più accanto a nessuno, sono un’immagine potente e sconvolgente, una cesura traumatica per un fondamento culturale della civiltà non solo occidentale.

Trovare modi nuovi per soddisfare un’esigenza antica come l’uomo – quella della rappresentazione comunitaria e partecipata, vissuta in presenza e senza mediazioni – è una sfida che comunque ci farebbe bene accettare. Anche perché potrebbe essere utile per delineare quello che veramente conta, in questo momento, oltre le distopie alla Rifkin: costruire un nuovo modello di gestione dello spettacolo dal vivo, che serva nello stesso tempo ad attenuare per quanto possibile l’impatto economico della crisi da virus e a ripartire più solidamente ed efficacemente una volta che la crisi sarà alle spalle.

Il fatto è che in questo momento sono sempre più numerosi i segnali di quanto sia critica la situazione, ma più di qualcuno, soprattutto nel mondo italiano dello spettacolo, preferisce fingere di ignorarli. Sta robustamente passando il messaggio che la ripresa e il ritorno alla “normalità” dovranno essere graduali e cauti. Ma si è anche già letto – e non si può negare che sia ovvio – che i teatri arriveranno per ultimi. Proprio perché il distanziamento fra le persone, in qualsiasi sala, è pura e semplice utopia. Prenderne atto potrebbe servire a non inseguire dannose chimere: i teatri sono chiusi e lo resteranno fino a quando non sarà ammesso che le persone stiano a meno di un metro l’una dall’altra.  Non si pecca di pessimismo ma si dà prova di realismo se si dice che non sarà fra un mese, e neanche fra due o tre. E il discorso prescinde dalle considerazioni sui meccanismi psicologici del dopo. Chi il teatro o la musica li fa, appena possibile tornerà a farli come sempre, perché oltre a essere una ragione di vita è anche un modo di camparla. Ma chi al teatro partecipa come spettatore, quando si sentirà davvero libero di ogni timore, dopo mesi di isolamento, cronache tragiche e martellamenti contro ogni tipo di assembramento?

Invece domina l’ipocrita adesione alle date contenute nei ricorrenti decreti anticrisi. I teatri sono sbarrati un po’ dappertutto, ma mentre altrove, da Berlino a New York, da Londra a Sydney, si fanno i conti del disastro economico, si pensa già alla prossima stagione e si raccolgono le forze per una nuova rinascita, in Italia per il momento si rimborsano i biglietti o si offrono i voucher per gli spettacoli annullati fino al 13 aprile. Per il dopo, si vedrà il prossimo Dpcm. E viene da chiedersi se gli organizzatori dei maggiori festival in giro per l’Europa siano tutti dei disfattisti che non hanno cuore le sorti del loro business e della loro arte. Ormai gli annunci delle cancellazioni sono una grandinata. Non ci sarà neanche il festival wagneriano di Bayreuth, forse il più antico di tutti, non quello multidisciplinare di Edimburgo (teatro, musica e molto altro). Erano previsti tra la fine di luglio e i primi di settembre, periodo durante il quale in Italia si svolgono molte e importanti rassegne sia musicali (da Macerata a Pesaro, da Martinafranca e Verona e alla sua Arena) che teatrali. Da noi, nessun segnale che si sta pensando a qualche alternativa, almeno a riformulare il calendario in attesa di capire come si muoveranno le ormai famigerate curve dell’epidemia. Chi va sul sito del festival di Salisburgo è informato delle date entro cui le decisioni definitive (si fa/non si fa) saranno prese. In Italia, silenzio.

Servono progetti per il dopo, inteso come un futuro che comincerà al più presto nel prossimo autunno. Serve (ri)costruire lo spirito che permetta di riportare idealmente e praticamente i teatri al centro delle città e della vita. Molto di più dell’ideuzza dell’assessore veneto alla cultura, di ricominciare quest’estate con un po’ di cinema all’aperto. Come se sotto le stelle un metro di distanza potesse diventare 30 centimetri.

In fondo, una delle svolte storiche nelle rappresentazioni avvenne proprio dopo una catastrofica epidemia. Avvenne quando si pensò che lo spazio chiamato teatro poteva e doveva essere coperto. Avvenne a Vicenza, per iniziativa di un gruppo di visionari alla Rifkin, che a molti allora dovevano sembrare degli autentici eversori. Si erano autonominati “olimpici”, chiamarono Olimpico il loro teatro, che è ancora lì. Cominciarono a costruirlo nel 1580 su progetto di uno di loro, Andrea Palladio, facendosi aiutare dalla pubblica amministrazione (vedi un po’…). Lo inaugurarono nel 1585. Appena due anni prima del via ai lavori, nel gennaio 1578, la città era uscita da una terrificante epidemia di peste, che nel giro di un anno e mezzo aveva ridotto a un terzo gli abitanti. La raccontò, in latino (titolo: De peste), uno di quegli olimpici, il medico Alessandro Massaria.

La descrizione delle tecniche di quarantena e auto-isolamento attuate per combattere il contagio potrebbe essere trasportata di peso in uno dei Dpcm dell’anno di poca grazia 2020. Ma questo è un altro discorso.

Cesare Galla

Pubblicato su www.vvox.it
https://www.vvox.it/2020/04/05/coronavirus-riapertura-teatri-quando/

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