Roma: I due livelli di Tugan Sokhiev

La presenza di Tugan Sokhiev sul podio dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è ormai una certezza. A 45 anni, il direttore russo è una presenza costante di gran parte delle principali orchestre al mondo, con un apprezzamento e una trasversalità di collaborazioni che ne confermano il solido successo.

“Solido” è una parola che assocerei facilmente alla direzione di Sokhiev, che nel concerto di venerdì 31 marzo ha offerto al pubblico la Sinfonia n. 104 “London” di Haydn e Das Lied von der Erde, la ‘sinfonia di Lieder’ di Gustav Mahler. Un’accoppiata un po’ particolare, che poteva costruire alcuni parallelismi sull’importanza della musica popolare nell’opera di entrambi i compositori, se non fosse che Sokhiev non sembrava molto interessato a questo aspetto. Più che non il suono legnoso e ruvido della campagna austriaca, la “London” di Haydn rendeva omaggio al suo soprannome con un’enfasi solenne, massiccia, a tratti quasi pomposa, sonorità piene dai contorni ben sagomati e un certo wit ironico. Sokhiev ha dimostrato di essere un direttore capace di non prendersi sempre sul serio, prendendosi la libertà di scherzare con l’orchestra anche nel mezzo del turbine haydeniano, mai lasciato a briglia sciolta.

Il direttore mette in evidenza nuovi spunti e dettagli strutturali che Sokhiev sembra scegliere estemporaneamente. È come se ci fossero due diversi livelli, nel suo far musica, che non dialogano veramente: le prove, in cui il direttore costruisce quella base solida che emerge nella compattezza dell’insieme, e il concerto, in cui si lascia spazio all’interpretazione e, verrebbe da dire, all’improvvisazione. Questa bipartizione funzionerebbe anche, se non fosse che l’improvvisazione è costruita a senso unico dal direttore. Sokhiev non ‘improvvisa’ partendo dall’ascolto degli spunti offerti dall’orchestra, ma seleziona ciò che vuole far emergere come se fosse un pianista di fronte alla sua tastiera. Con la differenza che i dettagli, i collegamenti, le sonorità, tradiscono chiaramente quali sono stati spiegati, provati, compresi dall’orchestra e quali invece sono il frutto di un’intuizione quasi del momento, che l’orchestra segue ma senza grande convinzione, svuotandoli di quel significato potenziale nella drammaturgia complessiva del brano. Servirà cedere un po’ di controllo, se si vuole riconquistare una spontaneità espressiva e un dialogo a due direzioni.

Se in Haydn questo aspetto era fondamentalmente nascosto da un sano brio e dal brivido della velocità, nel Canto della Terra mahleriano è salito in rilievo. Dopo un inizio un po’ preoccupato per l’insieme (comprensibile, Das Lied von der Erde è un brano di ingrata difficoltà per orchestra, direttore e solisti), Sokhiev è riuscito a ritrovare il polso della compagine e a compattare tutta la complessa orchestrazione del Lied. Lied che è poi risultato forse fin troppo compatto: la solidità e la sodezza degli impasti ottenuti da Sokhiev sacrificavano a tratti una trasparenza che, difficilissima da raggiungere, è però essenziale per aiutare le voci e per rendere intellegibile l’affollata scena mahleriana. Ogni tanto, svuotare un po’ i centri, ridurre le dinamiche delle voci secondarie e cercare una varietà nel timbro e non solo nell’intensità avrebbe forse permesso una realizzazione più efficace dell’affresco. D’altronde, nonostante questa sfugga da ogni lato, Sokhiev è riuscito a tenere insieme tutto il Lied, conducendo con grande coerenza fino alla fine. Sarebbe servito solo un passo in più, un suono più nella corda, un fraseggio più viscerale quando si inabissa nelle profondità dell’orchestra, un abbandono più libero in Abschied, per poter rendere questo Lied von der Erde qualcosa di assolutamente memorabile.

L’abbandono, però, richiede in primo luogo anche una fiducia nella compagine che Sokhiev, con il suo controllo impositivo, non si concede facilmente. Certo, l’Accademia di Santa Cecilia può risultare piuttosto caotica e certo, garantire l’insieme su un brano delicato come il Lied richiede una certa gestione delle risorse umane, ma l’Orchestra ha risposto più che bene al direttore e, quasi in stato di grazia, ha solcato tutto il programma con solidità di sezioni e splendidi soli dei legni e del primo violino, Andrea Obiso. Obiso che aveva un bel da fare sia ad aiutare il direttore con il traffico, sia a tirarsi dietro la sezione, che, un po’ incerta, tendeva a richiudersi su se stessa in una macchina a trazione anteriore, dove gli ultimi leggi non spingevano con la convinzione del concertino.

Eccellenti entrambi i solisti. Russell Thomas è un tenore dal timbro squillante, che ha dovuto ovviamente spingere un po’ per passare sulla densa e fitta orchestrazione, ma ha dimostrato solidità, preparazione e soprattutto comprensione dell’accalorata (ma non nevrotica) scrittura vocale mahleriana. Splendido il mezzosoprano Alice Coot, dalla voce sagomata e pastosa, fluida nei passaggi di registro e solidissima nell’intonazione. A lei si deve un meraviglioso Abschied conclusivo, che ha spento nel silenzio estatico della contemplazione il Canto della Terra di Gustav Mahler, prima del fragore degli applausi entusiasti del pubblico.

Alessandro Tommasi
(31 marzo 2023)

La locandina

Direttore Tugan Sokhiev
Mezzosoprano Alice Coote
Tenore Russell Thomas
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Programma:
Joseph Haydn
Sinfonia n. 104 “London”
Gustav Mahler
Das Lied von der Erde

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