Vicenza: la Juditha cameristica non perde il suo fascino

Oggi abbiamo il virus, che stravolge le abitudini nel fare musica dal vivo e detta nuove regole nell’andare ad ascoltarla. In passato, non è che tutto sia sempre andato liscio comunque: a prescindere da pestilenze ed epidemie, la norma nel realizzare la musica o il teatro era fare di necessità virtù, misurandosi con emergenze di ogni tipo. Questo prima che la “museificazione” dei concerti e dell’opera, eredità dell’era romantica, rendesse la civiltà della rappresentazione molto meno duttile di quanto non fosse alle origini e non sia stata per lungo tempo.

La premessa serve per osservare che un’esecuzione dell’oratorio vivaldiano Juditha Triumphans come quella che ha inaugurato all’Olimpico l’ottava edizione del festival Vicenza in Lirica, non merita di essere semplicemente catalogata come effetto della presente situazione, con le sue restrizioni. Certo, non ci era mai capitato di ascoltare il “Sacrum Militare Oratorium” portato a dimensione quasi “cameristica”, con un organico ridotto all’osso e gli strumenti di basso continuo obbligati al superlavoro per assolvere alla loro funzione primaria ma spesso anche per sostenere la straordinaria invenzione strumentale a più parti del “Prete rosso”. E dobbiamo confessare che il meraviglioso coro di inizio, “Arma, caedes, vindictae, furores” è sembrato un’altra cosa, rispetto alle nostre abitudini d’ascolto, nelle quali gli archi di un’orchestra piuttosto nutrita combattono musicalmente con i fiati e le trombe nel realizzare uno dei più affascinanti affreschi “bellici” della musica non solo barocca.

E tuttavia, man mano che l’esecuzione si inoltrava nella biblica vicenda dell’intrepida vedova ebraica che da sola riesce a uccidere il comandante in capo dell’esercito avversario e rovescia le sorti della guerra, è apparso sempre più evidente che noi del pubblico, distanziati sulle gradinate dell’Olimpico e con mascherina sempre sul volto (così le disposizioni), stavamo assistendo a una sorta di meditato e ben congegnato “studio” sulla grande partitura vivaldiana. Un approccio rigoroso, per quanto forzatamente limitato, che non solo conservava intatta la complessità della scrittura vocale solistica, nella multiforme sequenza di Arie con il “da capo”, ma delineava anche – per quanto possibile – la loro cornice strumentale, che raramente è così ricca e varia come nella Juditha.

Per arrivare a questo risultato, Francesco Erle, il cui coraggio è almeno pari alla sua competenza e alla sua passione, si è circondato di un manipolo di virtuosi suonatori di strumenti diversi. Otto esecutori otto (lui compreso, che ha suonato il cembalo dall’inizio alla fine), “polistrumentisti” – come usa dire oggi – in grado di rendere piuttosto bene l’idea della trama timbrica che avvolge le voci e con esse dialoga.

E non ci saranno state (a parte le trombe e forse i “clarini”) le quattro tiorbe prescritte da Vivaldi, o il singolare “consort” di viole all’inglese che realizza lo “sfondo” nell’unico recitativo accompagnato della partitura, quello del fatale momento della decollazione di Oloferne; come pure non c’era una sia pur minimo gruppo di archi acuti. C’era però il violino barocco di Anna Fusek, che lo abbandonava solo per passare a una panoplia di flauti di varia taglia; c’erano gli oboi di Arrigo Pietrobon, la viola da gamba di Cristiano Contadin, l’arciliuto di Davide Gazzato, eclettico nel passare a vari tamburi e tamburelli (e pure a una sorta di zampogna o piva), la tiorba di Gianluca Geremia e le tastiere di organo e regale toccate da Roberto Loreggian, acrobatico nel passare dal basso alla melodia. E c’era, importantissimo, il “salmoè” (così Vivaldi), ovvero la chalumeau realizzato su modello d’epoca da Alberto Ponchio, raffinato costruttore vicentino di strumenti a fiato. Indispensabile, questo strumento dal suono arcaico e suggestivo, per dare voce alla tortora di cui parla Giuditta nell’Aria “Veni, veni, me sequere fida”, nel tessere le lodi della fida ancella Abra. Un piccolo quanto affascinante miracolo di suggestione evocativa.

Con questa pattuglia di agguerriti quanto impeccabili specialisti della “prassi esecutiva” (cui solo non poteva riuscire il miracolo di costruire piani dinamici chiaroscurali come quelli che emergono nella versione a pieno strumentale) si è confrontato un gruppo di soliste vocali assortito abilmente per giustappore il magistero di due grande stiliste di livello internazionale con l’ottima impostazione di tre giovani cantanti di casa nostra.

Oloferne era Sara Mingardo, impareggiabile nel mettere il colore straordinario della sua tessitura contraltile al servizio di un’esecuzione volta a illuminare le vane aspirazioni amorose del condottiero con sottigliezza di fraseggio e profondità di accenti. Al suo fianco, debuttante al teatro Olimpico, il mezzosoprano americano Vivica Genaux ha percorso la parte assai varia di Vagaus facendo dell’agilità e dell’eleganza in perfetto equilibrio il segno distintivo di un’interpretazione di alto tasso virtuosistico e di coinvolgente musicalità. La giovane Caterina Meldolesi ha affrontato con efficace concentrazione la complessa parte di Juditha, forse un po’ in difficoltà laddove la scrittura vivaldiana tende alla zona grave della tessitura, ma sempre con linea di canto nitida e stile appropriato; brillante Cecilia Gaetani nel ruolo dell’ancella Abra, risolto con leggerezza e precisione, ben impostata Alessandra Visentin nella parte del sommo sacerdote, Ozias. Meno preciso di altre volte il coro Schola San Rocco, in organico ridotto (una quindicina di elementi) e “sparpagliato” sul palcoscenico dell’Olimpico per effetto dei distanziamenti. Che probabilmente in questo caso qualche effetto lo hanno avuto.

Esecuzione senza intervallo, per i motivi di cui all’inizio: un po’ più di due ore di musica. Ridotte le omissioni: non eseguite tre Arie (due di Juditha e una di Abra) oltre a vari passaggi di recitativo. Il maggior taglio ha riguardato l’Aria di Juditha “Quanto magis generosa”, nella prima parte dell’Oratorio, caratteristica per l’accompagnamento di viola d’amore “scordata”.

Distribuiti sulle gradinate con accortezza, i 170 presenti (la capienza sarebbe intorno ai 450) non davano l’idea che il teatro fosse così sguarnito di pubblico, anzi. E alla fine hanno applaudito lungamente e calorosamente, richiamando più volte le cantanti e gli strumentisti. Un’accoglienza che non ha fatto rimpiangere il tutto esaurito di una volta.

Cesare Galla
(29 agosto 2020)

La locandina

Direttore Francesco Erle
Light designer Andrea Grussu
Illustrazione Matteo Bianchi
Personaggi ed interpreti:
Juditha Caterina Meldolesi
Vagaus Vivica Genaux
Holofernes Sara Mingardo
Abra Cecilia Gaetani
Ozias Alessandra Visentin
Ensemble barocco del Festival Vicenza in Lirica
Coro Schola San Rocco

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