Vienna: Argerich, Mehta e il respiro del tempo

Al concerto di martedì 19 marzo tra gli stucchi dorati del Musikverein di Vienna, lo ammetto, ero andato soprattutto per Martha Argerich alle prese con il Concerto in Sol di Ravel, il concerto che tra tutti più sognavo di poter sentire dal vivo. All’orchestra e al direttore, i Wiener Philharmoniker con Zubin Mehta, avevo dato giusto un occhio per ricordarmi il programma, la Settima Sinfonia di Bruckner. Ricorre il bicentenario, tutto regolare, niente di cui balzare sulla sedia.

D’altronde è soprattutto Argerich la causa del sold out con cui tutti i concerti (quattro al Musikverein, uno al Konzerthaus, più una prova generale aperta) sono stati accolti. Una volta in sala, però, ho dovuto ricalibrare i miei pregiudizi. Non che Martha Argerich abbia suonato male, sia chiaro e d’altro canto spendersi sul prodigioso incanto con cui la pianista a quasi 83 anni macina i passi più contorti di questo concerto risulta quasi banale. Com’è noto, il Concerto in Sol di Ravel non è tra quelli che danno più risalto allo sfarzo tecnico del pianista, ma non mancano le sfide per l’interprete e più di un grande virtuoso ha sbattuto la testa sulle scomode figurazioni, gli incastri irregolari e le improvvise sterzate di questo pestifero Concerto. Anche Argerich non è infallibile, e senz’altro si può sentire che il meccanismo non è più sempre fluido e ben oliato come un tempo, ma la sua capacità di unire leggerezza e nitore, scolpendo le asperità armoniche e di scrittura pianistica per poi svanire in un fruscio di puro colore che si fonde nell’orchestra, ecco, questa capacità è ancora impareggiabile. Meno a fuoco invece, pare quasi assurdo, il secondo movimento, l’Adagio assai, sprovvisto di quel languore, di quell’intima melanconia che tanto pregustavo. Forse non nella serata giusta per lirici abbandoni (e d’altronde: quarto appuntamento di sei, è già tanto che fosse ancora lì sul palco e non già su un aereo per le Cayman), ma ciò che non tornava nell’Adagio non era tanto il metronomo, non strascicato ma nemmeno particolarmente spedito, bensì quel rubato che senza melasse e moine riesce a giocare sul filo del tempo per dare un respiro calmo e pregno di ascolto che invece, ieri sera, era un po’ tirato via. Meglio il terzo movimento, vibrante e vertiginoso, al netto di qualche svirgolata dell’orchestra che, ma già nel primo tempo, avrebbe avuto bisogno di ben più aiuto da parte di Mehta. A sorpresa, dopo il trionfo del finale, per la folla in adorazione Argerich, Mehta e i Wiener hanno offerto come bis la ripetizione dell’intero (breve) terzo tempo, questa volta ancora più vibrante, ancora più vertiginoso e pure più veloce. A chiudere la prima parte del concerto uno dei classici bis di Martha Argerich, la prima delle Kinderszenen di Robert Schumann.

Come accennavo, in Ravel Wiener e Mehta pur con alcuni momenti timbricamente sublimi non hanno brillato per freschezza e precisione. Un po’ demoralizzato, supponevo di dovermi rassegnare verso un Bruckner un po’ di routine e senza grandi sorprese, profondo e ponderoso al limite del pisolo. E invece mi sono trovato di fronte ad una tenuta di tempo e forma di acuta disciplina, con orchestra e direttore pronti a condurre con mano sicura il timone anche nei passaggi più impervi della Settima Sinfonia.

Zubin Mehta sa bene come dare respiro alla musica e che non è tanto la generica lentezza ad aprire quelle porte verso il sublime di cui Bruckner costella le sue messe e le sue sinfonie. Perché il diradarsi delle nubi abbia l’agognato impatto celestiale, è necessario che prima l’orchestra serri i ranghi, tenga il tempo e chiuda il suono verso timbri scuri e sonorità corrucciate. Solo quando la musica lo chiede, Mehta concede al tempo uno spazio più disteso, chiama un timbro più limpido in archi e ottoni e raggiunge l’apice. È pur vero che di quando in quando mancano slancio ed energia, ma Mehta compensa con una violenta intensità che fa affidamento su un’orchestra, i Wiener Philharmoniker, che quando prende il passo giusto sembra non conoscere limiti. Sono poche le compagini, persino tra le più rinomate, che possono raggiungere queste dinamiche estreme, questa densità, questo suono scuro e nella corda, senza mai perdere di qualità, di morbidezza, di compattezza. E nella sobrietà del gesto di Mehta il tempo passa senza scorrere, ritrovando il piacere di naufragare in un eterno presente, per cui nel cuore dell’Adagio mi sono scoperto a sperare che non finisse mai. Invece, dopo un magnifico e rigoglioso Scherzo e un Finale un po’ meno coeso e organico nelle sue forti cesure, anche la Settima di Bruckner è finita – e come sempre quando Bruckner è ben diretto e ben suonato, ci si alza dalla sedia quasi senza rendersi conto che sono passate le ore. Se ne deve essere accorto anche il pubblico del Musikverein, che ha tributato enormi ovazioni a Mehta, con tutta la sala in piedi ad omaggiare l’anziano direttore e i Wiener Philharmoniker.

AlessandroTommasi
(19 marzo 2024)

La locandina

Direttore Zubin Mehta
Pianoforte Martha Argerich
Wiener Philharmoniker
Programma:
Maurice Ravel
Concerto per pianoforte in Sol Maggiore
Anton Bruckner
Symphony No. 7 in Mi Maggiore, WAB 107

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