Milano: Sylvia di Manuel Legris apre la Stagione di Balletto 2019-2020

Inaugurare la nuova Stagione di Balletto 2019-2020 del Teatro alla Scala di Milano con Sylvia è una scelta coraggiosa, per svariati motivi. Innanzitutto non è un titolo mainstream e tantomeno natalizio, come potrebbe suggerire il periodo. Non vanta una nutrita tradizione coreografica, a differenza di altri titoli ottocenteschi ben più seguiti e rivisti. I temi mitologici e pastorali sono lontani anni luce dall’attuale contesto socioculturale. La musica di Léo Delibes, se pur splendida (pensiamo solo alla struggente bellezza del violino nel pas de deux del III atto!), e l’intreccio che guarda alla “favola boschereccia” Aminta di Torquato Tasso sono ben poco conosciuti. E potremmo proseguire, eppure…

Eppure Sylvia ci doveva essere, per invitarci a riflettere. Proprio per quanto espresso sopra, ma non solo. Un buon azzardo. Il duo Olivieri-Legris – rispettivamente direttore del Ballo scaligero e coreografo del titolo – ha voluto guardare oltre, sfidando il botteghino (anche se è ancora presto per tirare le somme, dato che le recite al Piermarini proseguono fino a metà gennaio). Del resto Sylvia era uno spettacolo tanto atteso, perché a Milano manca dal 1895, anno della sua prima e ultima, fino ad oggi, produzione scaligera; inoltre è il secondo balletto a serata intera di Manuel Legris (dopo il suo Corsaro del 2016), già interprete di fama dell’Opéra parigina e dal 2010 direttore del Wiener Staatsballet.

In questo nuovo allestimento, coprodotto con Vienna che l’ha debuttato nella scorsa stagione, c’è di tutto e di più a proposito del balletto classico-accademico, forse anche troppo: c’è la scuola francese e c’è quella italiana, senza alcuna concessione contemporanea; anzi, ci sono anche tecnicismi oggi desueti. La freschezza di alcune trovate drammaturgiche – come ad esempio la coreografia del Prologo sul preludio iniziale, che introduce il taglio narrativo voluto da Legris insieme al drammaturgo Jean-François Vazelle che con lui ha lavorato al libretto, non ravvisabile in nessuna delle rare precedenti produzioni del titolo – viene smorzata da una percepibile mancanza di climax nel succedere dei vari quadri, dove tutto si sussegue per accumulo, con il risultato di smorzare l’emozione in virtù di una frenesia narrativa. Insomma, sembrano sempre tutti di corsa, con troppe cose da dire. Si percepisce una fame di passi, di braccia, di prese. Con il risultato di ‘parlarsi sopra’ gli uni agli altri, senza concedersi un momento per riflettere su un gesto, uno sguardo, un silenzio, e a discapito di un approfondimento sul personaggio che superi la caratterizzazione. Complici di questo, forse, le scene e i costumi di Luisa Spinatelli non memorabili, che concorrono a dare un sapore generale un po’ ‘polveroso’. Un omaggio alla grande danza del passato e alle sue glorie, certo, ma un po’ too much, verrebbe da dire, incappando così in una certa difficoltà d’attenzione lungo i tre atti.

Nonostante questo, la coreografia ha il grandissimo pregio di rivelare la professionalità dei suoi interpreti, concordando con il pubblico, che a fine serata ha tributato applausi per tutti.

In questa Sylvia spicca sicuramente il Corpo di ballo scaligero, encomiabile nella sua non facile performance d’insieme tra ninfe, satiri e contadini. Seguono poi gli interpreti maschili, per cui è tutto un arabesque, tour e batteria: Claudio Coviello in Aminta si rivela danzatore a tutto tondo, dall’ottima tecnica e profonda interpretazione dall’inizio alla fine, per raggiungere la sua apoteosi nella variazione del III atto che stimola l’applauso più sincero della recita cui abbiamo assistito; segue quindi il plauso per Nicola Del Freo, anch’egli brillante nell’intera esecuzione, con il suo Eros statuario, imperioso, quasi superbo; infine, Christian Fagetti è un Orione irruento e passionale, che ben coniuga la destrezza alla presenza scenica. Nota di merito anche per il vivace fauno di Federico Fresi e l’Endimione di Gabriele Corrado.

Sul versante femminile, partendo dal ruolo del titolo caratterizzato da arabesques, pirouettes e tours en attitude avanti, Martina Arduino dà prova di essere una vera professionista, superando prontamente con la padronanza del palcoscenico una spiacevole imperfezione nel manège del II atto e riscattandosi, poi, anche con la variazione del III atto (il passaggio musicale più celebre del balletto grazie alla pubblicità) dal costrutto coreografico un po’ faticoso; la sua Sylvia è una donna devota, rispettosa, ma anche furba e volitiva, molto attuale. Accanto a lei, la Diana di Maria Celeste Losa è precisa e autoritaria tanto da tener testa ad Eros, ma s’intravede lirica e fremente nei pochissimi giusti momenti del balletto di narrazione. Dolcissima e puntuale poi la naiade di Vittoria Valerio, così come frizzante e azzeccata è la contadina di Antonella Albano.

Dal podio, alla testa dell’Orchestra scaligera, l’americano Kevin Rhodes ha restituito meravigliosamente lo spirito e il fascino della partitura di Delibes, rubando a tratti la scena all’azione drammatica.

E con un po’ di ironia, auspicando di poterci confrontare ancora con nuove riletture di titoli meno frequentati che mantengano attivo il legame tra passato e futuro per una sempiterna vita del balletto classico, concludiamo con le parole del critico Eduard Hanslick, all’indomani della première del 14 giugno 1876: “È tutto molto bello, ma francamente noioso”.

Tania Cefis
(17 dicembre 2019)

La locandina

Direttore Kevin Rhodes
Scene e costumi Luisa Spinatelli
Assistente alle scene e costumi Monia Torchia
Luci Jacques Giovanangeli
Personaggi e interpreti:
Sylvia Martina Arduino
Aminta Claudio Coviello
Orione Christian Fagetti
Eros Nicola Del Freo
Diana Maria Celeste Losa
Endimione Gabriele Corrado
Un fauno Federico Fresi
Una naiade Vittoria Valerio
Una contadina Antonella Albano
Un contadino Mattia Semperboni
Un pastorello Valerio Lunadei
Due cacciatrici Gaia Andreanò, Alessandra Vassallo
Due schiave nubiane Vittoria Valerio, Alessia Auriemma
Corpo di Ballo del Teatro alla Scala

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