Lontano da Corinto (seconda parte)

Fra Tedeschi, Boemi ed affini il suo preferito era Benda, con la sua Medea declamante maledizioni irte di consonanti gutturali o sibilate su uno sfondo corrusco di archi in tempesta; ed erano spesso interiezioni di due battute o anche meno. Quando parla lei, la musica mette il bavaglio, come se l’eventuale sinergia delle due Muse producesse soltanto opacità, intorbidamento, inverosimiglianza. Ne discusse un giorno anche col ragazzino prodigio di Salisburgo, e questi le confessò: “Sai cosa penso? Che nell’opera si dovrebbe trattare in questo modo la maggior parte dei recitativi, e solo di tanto in tanto, quando le parole ben si adattano all’impressione musicale, far cantare il recitativo” (9).

Ha, Treuloser!

[5/4 di Allegro assai, seguiti da 3/4 di silenzio]

Ist das mein Lohn?

[come sopra]

Hast du vergessen, dass dein Leben mein Werk ist?

[come sopra]

Dass ich dir alles aufopferte?

[come sopra]

Dass ich hasse, wie ich liebe?

[come sopra] (10)

Una lingua adatta al canto più o meno quanto il dialetto parlato dagli Sciti della sua Colchide natia; questi pure incivilitisi nel frattempo, e già pronti ad entrare nel concerto delle nazioni. A San Pietroburgo si imbatté perfino in un compositore russo. La grande Caterina lo aveva fatto studiare in Italia e lui scrisse, come tanti, un Orfeo nuovo. Medea aveva conosciuto in persona l’aedo di Tracia, quand’era giunto al seguito di Giasone su Argo, la nave nera. Ascoltando le sue canzoni si era innamorata dell’Ellade lontana, pensando che i figli dell’armonia non conoscessero menzogna e tradimento. Si sbagliava, naturalmente, ma questo scita riuscì a sorprenderla davvero: fra il minuetto e il secondo coro tutti attendevano l’incantesimo che Orfeo canta a Plutone accompagnandosi sulla lira. Si udì invece un racconto di cose ineffabili, un Lied ohne Worte, un recitar cantando senza canto. E perché mai, visto che proprio il canto di Orfeo apre e giustifica tutta la storia dell’opera in musica, con rispetto parlando? Niente da fare; l’Orfeo di Fomin (così si chiamava quel giovane barbaro ingegnoso) cantava con la voce di un clarinetto: volatine, salti di diciassettesima, lunghe note tenute, una cadenza finale in stile improvvisativo. Parola e musica si cercano senza mai incontrarsi, eppure il dio della Morte si lascia commuovere ugualmente. Forse è proprio così che bisogna fare, pensò lei — almeno fino a quando non restò sedotta dalla Medea di Pacini. Ah, il bel canto italiano! Quella cabaletta furibonda nel prim’atto, a conclusione di una grande scena con cavatina, le si addiceva a meraviglia:

O Giason! se a me di fede

tu mancar potessi mai,

giuro al Ciel che non godrai

d’un novello iniquo amor.

Se in amarti il core eccede,

fia nell’odio ancor più rio;

niun mortal potrà, niun Dio,

no! sottrarti al mio furor. (11)

La passione dei musicisti italiani per la sua storia la lusingava. Dalla Medea in Colco — ovvero Il Giasone, pfui! — di Francesco Cavalli, data per la prima volta a Venezia nel 1649 (ma lei non c’era ancora sbarcata, purtroppo), giù giù fino alla Medea di Guarnieri, opera-video con live electronics la cui prima poté seguire il 18 ottobre del 2002, sempre a Venezia, le loro attenzioni parevano non aver mai fine. Acquattata sotto il tendone del Palafenice riascoltò fremendo le proprie parole (o erano quelle di Euripide? non avvertiva più la differenza…) sminuzzate da tre diverse Medee, un soprano, un contralto e una voce leggera senza sesso:

Medea 1:

… parlami terra, parlami sole…

… fammi udire la voce…

… o sole, o luce, non vi sento…             

Medea 3:

… parlami terra, non ricordo più la tua voce…

Medea 1 e 3 …dov’è il mio furore, la mia fermezza di un tempo… (12)

I concertati del coro, delle trombe come metalli, dei cavi d’acciaio e dei tromboni in sala s’aggiravano intorno ad un profondo perno mobile del flauto contrabbasso. Pensò per un attimo di essere sprofondata nelle caverne dell’Erebo, ma tutto ciò la faceva sentire viva come non mai. Sempre più perplessa, s’intrufolò non vista nelle biblioteche, sfogliò cataloghi e repertori, lesse ponderosi volumi di saggi critici, solfeggiò partiture (la musica l’aveva appresa direttamente da suo nonno Apollo, che ne era stato l’inventore), finché un giorno, scorrendo un programma di sala da cui qualcuno aveva strappato il frontespizio, s’imbattè in queste parole rivelatrici:

“Arcadia è il non-luogo (ou-topos) dove Dei, semidei e pastori si esprimono in versi, trapassando dalla parola al canto e dal canto alla parola quasi inavvertitamente. Ciò non fa impressione più di tanto a noi, che siamo ormai abituati alle convenzioni del linguaggio melodrammatico. Alle origini dell’opera era invece cosa tanto nuova da sollecitare l’excusatio, basata su fragili dissertazioni erudite, di molti autori e prefatori; primo fra tutti il Guarini, il quale invoca l’autorità dello storico greco Polibio: che tutti gli Arcadi eran poeti, che ‘l principale esercizio loro era quel della musica, che l’apparavano da fanciulli, che le leggi a ciò fare li costringevano”.

“Et in Arcadia ego”, si disse. “Dunque posso capire. Ma dov’è oggi l’Arcadia? E quali sono le sue nuove leggi?” Una prima risposta gliela diede Christa Wolf, una donna barbara. Un romanzo che diventa il libretto di un oratorio, un coro di folla, un tribunale sull’agorà; Corinto o Atene, Gerusalemme o Berlino poco importa. Un diverso, uno straniero, viene scacciato dalla città per espiare i peccati di tutto il popolo. Acamante, come Ponzio Pilato, domanda ai suoi sudditi: “che devo fare di lei”? La risposta è quella di sempre: “chiudile la bocca”.

 

Akamas: Was wollt ihr, dass ich tue?

Das Volk: Stopf ihr den Mund. Sie hat nur Unheil über uns gebracht. Sie hat die Pest uns angehext. Für sie ist in Korinth kein Platz.

Akamas: Hörst du sie, Medea? (13)

 

Il popolo dei lupi è profondo, riconosce il suo simile a fiuto e vuol tenerlo lontano da sé. Lontano da Corinto. Possibilmente dopo avergli tolta la parola, negato l’ascolto. Ma un amaro piacere venne a Medea dall’apprendere ciò che le nuovissime leggi della città (un’unica legge, a dire il vero, che tutte le antiche abolisce) preparavano agli uomini: paesaggi di rive desolate, inquinamento, distruzione… Suoni allucinati di voci per strada, tagliate e rimontate con aggiunta di effetto chorus, echi, scorrimento veloce o lento del nastro, scorrimento all’inverso ed altro ancora, difficile da descrivere. Alla pentola primordiale del dio Chaos facevano pensare i nuovi canti, così differenti da quelli d’Arcadia. A lei, Medea, si facevano eruttare queste parole in mezzo ai rumori più ingrati che orecchio divino avesse mai percepito:

Die zerrissenen Monatsbinden Das Blut

Der Weiber von Kolchis

ABER DU MUSST AUFPASSEN JA

JA JA JA

SCHLAMMFOTZE SAG ICH ZU IHR DAS IST MEIN MANN

STOSS MICH KOMM SÜSSER

Bis ihm die Argo den Schädel zertrümmert das nicht mehr gebrauchte Schiff 

Das im Baum hängt Hangar und Kotplatz der Geier im Wartestand

Sie hocken in den Zügen Gesichter aus Tagblatt und Speichel… (14)

Semplicemente disgustoso. “La cronaca di oggi è piena di Medee. Di mamme che buttano i figli nel bidone”, le capitò di leggere nella pagina degli spettacoli mentre faceva colazione all’indomani di una prima (15). Subito gettò il giornale nel cestino. Cosa aveva da spartire lei con quelle mezze calzette di casalinghe mediatiche? Io sono Medeia figlia di Aietes re dei Colchi, nipote di Helios e di Selene, venerata in Arcadia coi nomi di Despoina Parthenos Athanatos. Se per voi mortali — voi tutti Corinzi Ateniesi Beoti, e Sciti e Italici, Germani e Celti; così Elleni come Barbari, nessuno eccettuato — il solo modo di entrare nel divino è entrare nel cretino, tanto vale lasciare la tragedia e passare all’operetta. Questa sera danno la Vedova allegra. Adesso mi prenoto una poltrona, proprio come se fossi una di voi.

Carlo Vitali

——–

note

(9) Wolfgang Amadeus Mozart, lettera al padre Leopold, 12 nov. 1778.

(10) Ah, spergiuro!

Così mi ricompensi?

Scordi che la tua vita è opera mia?

Che tutto ti ho sacrificato?

Che come amo, così so odiare?

(Friedrich Wilhelm Gotter — Georg Benda, Medea und Jason, 1775, batt. 60 sgg.)

(11) Benedetto Castiglia — Giovanni Pacini, Medea, 1842, I/3.

(12) Adriano Guarnieri (libretto proprio, da Euripide), Medea, 2002, I/1.

 

(13) Acamante: Cosa volete ch’io faccia?

Il popolo: Tappale la bocca. Solo sventura ci arrecò costei. Col maleficio ci attaccò la peste. Corinto non è più luogo per lei.

Acamante: Li senti, Medea?

(Christa Wolf — Georg Katzer, Medea in Korinth, 2002, finale)

(14) Gli assorbenti stracciati Il sangue

delle donne di Colchide

MA TU DEVI STARE ATTENTA SÌ

SÌ SÌ SÌ

FICA DI MERDA LE DICO QUESTO È IL MIO UOMO

SCOPAMI VIENI TESORO

Finché l’Argo non gli maciulla il cranio il vascello in disarmo

che sta appeso all’albero hangar e cesso degli avvoltoi in attesa

appollaiati nei treni facce di giornale e sputo

(Heiner Müller — Heiner Goebbels, Verkommenes Ufer Medea Material Landschaft mit Argonauten, 1982)

(15) Piera Degli Esposti, intervista a “Il Resto del Carlino”, 27 novembre 2002.

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