Alfonso Antoniozzi: «Con la cultura si mangia eccome»

Cantante, regista, uomo di cultura, Alfonso Antoniozzi rappresenta al meglio tutti gli operatori dello spettacolo dal vivo, penalizzati più di altre categorie dalle conseguenze della pandemia e, soprattutto in Italia, considerati dai più “non-lavoratori”. Gli abbiamo fatto qualche domanda.

  • La situazione dello spettacolo dal vivo – insieme a quella del cinema – non è sostenibile dallo scorso marzo. Adesso, con la seconda ondata – prevista e sottovalutata – si rischia la morte dell’opera, così come quella del teatro. Che fare?

Più che la morte dell’opera, che sono convinto sia come la Fenice e troverà un modo per rigenerarsi, si rischia la morte dei lavoratori del settore. Nella ripresa, che ripresa non fu, del periodo estivo si è trovato il modo di andare avanti tra semisceniche e concerti, ma è evidente che la larga parte dei lavoratori dello spettacolo è rimasta a casa, e con loro tutta la lunga filiera produttiva che vive di questo settore. Per un concerto o una semiscenica, non lavorano scenografi, costumisti, sarti, parrucchieri, truccatori, sartorie, scenotecniche (e i loro fornitori), e ancora mimi, figurazioni speciali, danzatori, e anche il parco di macchinisti e attrezzisti è ridotto. Se il pubblico ha avuto l’impressione di una ripresa, la triste verità è che in estate ha lavorato unicamente la punta di un iceberg assai profondo. Se in aggiunta a questo ragionamento ci aggiungiamo che molte di queste categorie non godono di alcun ammortizzatore sociale, forse si arriva a comprendere la tragedia. Si tratta di persone, di famiglie, che non hanno più il loro sostentamento quotidiano e molte di queste, sacrosantamente, stanno pensando di abbandonare il settore quando non l’hanno addirittura già fatto. Questa, secondo me, è la morte di cui dobbiamo preoccuparci e, al più presto, occuparci.

  • Pensi che i teatri italiani abbiano fatto tutto il possibile per salvaguardare i lavoratori e il pubblico?

Tutti i teatri dove ho lavorato avevano messo in atto al millimetro ogni norma di sicurezza, in alcuni casi anche soprassedendo alla volontarietà di sottoporsi al test molecolare e imponendolo come conditio sine qua non sia ai lavoratori ospiti che alle masse stabili. I dati AGIS che riportavano un solo contagio tra gli spettatori per tutto il periodo estivo credo siano l’inequivocabile riprova che il lavoro fatto sia stato egregio. Mi sono giunte voci di situazioni all’estero in cui il teatro, dall’inizio delle recite, sospendeva i tamponi onde evitare di rilevare un contagio e quindi interrompere le recite. In nessun teatro italiano dove io abbia lavorato si è mai ventilata una soluzione così assurda.

  • Come si potrebbe far capire all’opinione, e alla politica, pubblica che quelli legati alle arti sceniche sono lavori e professioni e non “passatempo”?

Spiace dover sottolineare che il lavoro può essere anche un’esperienza piacevole, in un Paese dove pare che all’idea di lavoro sia legata l’idea di insopportabile sofferenza, ma se uno ha avuto l’ostinazione di far diventare un lavoro quella che è la sua principale passione è esattamente così. Certo, le parole del Presidente del Consiglio “non dimentichiamo gli artisti che ci fanno tanto divertire” sono figlie di una subcultura diffusa che ha fatto più danni della grandine. Quella subcultura che, tanto per capirci, si espresse con la corbelleria più solenne che io abbia mai sentito, per bocca dell’allora ministro Tremonti: con la cultura non si mangia. Con la cultura si mangia, eccome. Dati alla mano, tutto il sistema culturale italiano nel 2017 produsse il 6,1% della ricchezza del paese, 92 miliardi di euro, ogni euro investito in cultura ne produce cinque. Dati del sole24ore, non invenzioni del sottoscritto. Il calcio, che nell’immaginario collettivo “muove l’economia” nel 2019 ha prodotto 7,1 miliardi di ricchezza. Di cosa stiamo parlando?
C’è che non esiste peggior sordo di chi non vuol sentire, e anche il fatto che gli artisti siano tendenzialmente individualisti e dunque recalcitranti ad unirsi per far sentire in maniera netta le proprie voci non solo sul palcoscenico certo non aiuta.

  • Una domanda forse scomoda: nei giorni scorsi i molti, me compreso, avevano scritto che tre positivi al Covid in un coro o in un’orchestra non sono un focolaio. Si può continuare ad affermarlo a fronte della messa in quarantena di un’intera compagine orchestrale e ventisette positivi nel massimo teatro italiano?

La Scala aveva regole stringentissime: test prima dell’inizio della produzione, test ogni quindici giorni all’intero teatro, mascherine FPP2 per tutto il tempo delle prove, misurazione della temperatura a ogni accesso, distanze di sicurezza eccetera. Com’è potuto succedere tutto questo? Io non ho una risposta, ma sicuramente posso offrire due possibilità, perché altre non me ne vengono in mente: o tutti questi sistemi di sicurezza sono accorgimenti farlocchi, o qualcuno non li ha seguiti a dovere. Bada, non sto accusando nessuno: sto semplicemente prendendo atto di una situazione che non aveva i presupposti per esplodere così come è esplosa. Dunque secondo me non restano che queste due ipotesi: o ammettere che tutte queste precauzioni alla prova dei fatti sono insufficienti, oppure che ci sono stati dei comportamenti personali non particolarmente rispettosi delle precauzioni. La buona notizia è che il sistema posto in atto ha isolato il problema. La cattiva notizia è che, analizzando la linea temporale, le decisioni governative sono state assolutamente indipendenti dalla situazione scaligera, che è precipitata dopo l’uscita del DPCM che ha ordinato la chiusura.

  • Che ne pensi dello streaming? Può essere una soluzione o un ulteriore affossamento?

Lo streaming è una risorsa potentissima, se solo si avesse la lungimiranza di investirci dei denari e immaginarne le possibilità economiche. Se si riuscisse ad offrire un prodotto a marchio Italia di eccezionale qualità audio-video e metterlo a pagamento sul mercato mondiale vendendo degli abbonamenti “virtuali” potrebbe essere una miniera d’oro per le casse dei teatri. Si potrebbe dunque affiancare alla platea reale un’enorme platea virtuale, fermo restando che per fare questo è necessario che torni sul piatto il problema dei diritti d’immagine dell’artista, al momento ceduti al teatro, e che con questa soluzione dovrebbero tornare ad essere oggetto di negoziazione: se si cedesse all’artista una percentuale dell’incasso dello streaming per ogni messa in rete si potrebbe anche immaginare, ad esempio, di ridurre il numero di recite il che, a questo punto, sarebbe conveniente sia per l’artista che per il teatro.
Senza contare che, se tutto questo fosse già stato posto in essere, molti di noi affronterebbero questo periodo con un cuore più leggero, sapendo di poter contare sulle percentuali d’incasso degli streaming.

  • I teatri hanno chiuso anche nel resto d’Europa: errore o necessità?

Credo soprattutto ferma convinzione che non siano attività essenziali, vedi la porcata fatta in Francia con la chiusura delle librerie, unita a una consistente dose di miopia amministrativa condita con abbondante sale burocratico.

Alessandro Cammarano

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