Vicenza: Yamashita solo al centro di Tebe domina la scena

Per due volte, nel corso della sua serata al Teatro Olimpico, Kazuhito Yamashita ha fatto una cosa che ai vicentini dovrebbe essere particolarmente gradita e che non si vede quasi più, come se suonare nel teatro coperto più antico del mondo fosse una cosa normale. In quelle due occasioni, il famoso chitarrista giapponese (che mai prima aveva suonato a Vicenza né nel teatro palladiano) entrando in scena non si è limitato a salutare il pubblico, ma è stato letteralmente e con tutta evidenza “catturato” da quello che vedeva, puntando uno sguardo quasi attonito e reverente sulla “frons scenae”, sulle vie di Tebe, sulla prospettiva doppia inventata da Vincenzo Scamozzi.

Di sicuro aveva già visitato e studiato il teatro, ma essere in quello spazio aveva chiaramente una valenza diversa. E che quella di Yamashita non fosse solo una cortesia molto giapponese per i “padroni di casa” è stato affermato da tutto il resto, da un concerto costruito per esaltare la magnificenza del suono della chitarra senza violare lo statuto monumentale del luogo nel quale si trovava a crearlo. Anzi, in qualche modo esaltandolo. Perché è sembrato che l’esecutore – solitario e apparentemente minuscolo al centro della lunghissima scena, solo con il suo seggiolino e un appoggia piedi, nessun leggio a incrinare l’eleganza dell’insieme – trovasse nello spazio creato da Palladio una risonanza ai confini dell’amplificazione. Un’astratta ed elegantissima corrispondenza di vibrazioni, che ha progressivamente catturato il pubblico e alla fine lo ha conquistato.

Yamashita è musicista che lungo tutto l’arco della sua carriera ha agito come se la chitarra potesse comunque andare oltre i caratteri tecnici e acustici, timbrici ed espressivi che le sono propri. Che ne costituiscono il fascino e anche il confine. Ed ha quindi percorso con il suo strumento un repertorio inusitatamente ampio e allargato rispetto ai pezzi originali del “canone chitarristico”. Oltre a trascrivere tanta parte del Bach cameristico (dai Soli per violino e per violoncello alle musiche per flauto o per liuto, ad esempio) ha infatti sfidato anche la scrittura orchestrale dell’Ottocento e del Novecento, riducendo alle sei corde pizzicate caposaldi del repertorio come la Sinfonia Dal nuovo mondo di Dvorák, i Quadri da un’esposizione di Musorgskij, la suite da L’uccello di fuoco stravinskiano.

Di questa sua visione era particolarmente ricco il programma del concerto che ha tenuto all’Olimpico, primo della primavera, inserito fuori calendario nell’attività della Società del Quartetto con la sponsorizzazione di “Aquila – Corde armoniche”, l’azienda di Mimmo Peruffo, basata a Caldogno, che rifornisce virtuosi in tutto il mondo. Il viaggio nella chitarra con Yamashita è infatti iniziato nel nome di Bach e della prima Suite per violoncello solo, per toccare l’esotismo indiano di Rimskij Korsakov dall’opera Sadko e concludersi con appunto la Nona di Dvorák, della quale è stato eseguito il secondo movimento, Largo. Di puramente chitarristico c’erano invece i Folios per chitarra di Tōru Takemitsu, una pagina del 1974 di quello che è fra i più influenti compositori giapponesi del Novecento; e la Suite Compostelana di Federico Mompou, autore catalano scomparso una trentina d’anni fa che in realtà a questo strumento tipico della sua terra non ha dedicato che poche pagine, dedicandosi piuttosto al pianoforte durante la sua lunga carriera divisa tra Francia e Spagna.

Si tratti di delineare le linee melodiche e contrappuntistiche di Bach, i pensieri timbrici di Takemitsu, l’esotismo di Rimskij o i richiami al patrimonio popolare di Mompou, Kazuhito Yamashita definisce il sua approccio interpretativo come un percorso dentro al carattere del suono, in tutte le sue articolazioni. Il fraseggio vive di minute diffrazioni nel colore e nelle dinamiche, delineate con tecnica superiore e soprattutto con una musicalità che sembra proiettare ogni suono in una dimensione speculativa. Ciò è accaduto anche nella sbalorditiva esecuzione del Largo dalla sinfonia di Dvorák. La dolente dolcezza del tema principale – forse il più “americano” di una composizione che non lo è poi tanto – passa nella strumentazione del compositore boemo attraverso l’iridescente gamma di colori del corno inglese, dell’oboe, del flauto e dei corni, mentre agli archi tocca un ruolo quasi di comprimario. Questa tavolozza viene restituita da Yamashita secondo una sensibilità tutta interiore eppure inspiegabilmente comunicativa, ed è affascinante sovrapporre nella memoria l’originale di Dvorák mentre il chitarrista ne offre la sua versione, perché l’identificazione espressiva è chiara e l’essenzialità del suono della chitarra alla fine vince anche la sfida di affermare una dimensione organica, appunto “orchestrale” anche se dentro a un solo delicato strumento.

Una platea foltissima (l’Olimpico era esaurito) e affollata di giovani studenti di chitarra provenienti dalle scuole vicentine ha seguito con crescente concentrazione il percorso mentale e sonoro dettato da Kazuhito Yamashita. Alla fine, gli applausi sembravano non finire più fino a quando, quasi inaspettatamente, il chitarrista giapponese è tornato per regalare una sua pagina di assoluta astrazione e difficoltà. Quasi un esercizio Zen, che come tale è stato rispettosamente apprezzato.

Cesare Galla
(20 aprile 2018)

La locandina

Interpreti
Chitarra Kazuhito Yamashita
Programma
Johann Sebastian Bach
Suite per violoncello n. 1 in Sol maggiore BWV 1007 (arrangiamento di Kazuhito Yamashita)
Tōru Takemitsu
Folios per chitarra
Nikolaj Rimskij-Korsakov
Song of India dall’opera “Sadko” (arrangiamento di Kazuhito Yamashita)
Federico Monpou
Suite Compostelana
Antonín Dvořák
Largo dalla Sinfonia in Mi minore “Dal nuovo mondo” op. 95 (arrangiamento di Kazuhito Yamashita)

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