Bergamo: a Kenilworth la prima volta di Donizetti e Elisabetta

Tre volte nel corso della sua vita Gaetano Donizetti si imbatte, o più probabilmente ricerca, Elisabetta I regina d’Inghilterra, cogliendola in altrettanti momenti cruciali della sua vita.
Il primo incontro è al Castello di Kenilworth, dove troviamo un’Elisabetta giovane e incline alla misericordia, nonostante Robert di Leicester, il grande amore della sua vita, le preferisca la sua sposa; il secondo è a Fotheringhay, prigione di Maria Stuarda, la cugina-rivale con cui si scontra epicamente. Il terzo vede una sovrana senescente e vinta, vittima di un amore per un altro Robert, quel Devereux che le si rivolta contro e che ella comunque perdona.

Stesso personaggio, diverse visioni e approcci drammaturgici e musicali differenti che segnano l’evoluzione dell’estetica donizettiana, che non procede in linea retta, ma vive di corsi e ricorsi alternando capolavori a pagine meno risolte.

L’Elisabetta del Castello di Kenilworth, secondo titolo proposto dal Donizetti Opera 2018, nella revisione sull’autografo di Giovanni Schiavotti è ancora parzialmente lontana dall’idea di potere assoluto, che diviene parte preponderante del suo agire nella Stuarda e nel Devereux e tuttavia già si manifesta nel Finale, dove perdona tutti, negandosi a futuri affetti personali e “sposando” la corona. La rivalità tra lei e Amelia, donna forte e sposa tradita di Leicester, al quale Leone Tottola, autore dell’infelice libretto, mette in bocca un incongruente “ingenua” (altro che ingenua!), è quella di due leonesse innamorate e completamente estranea a qualsiasi gioco di potere.
La musica va e viene, alternando momenti altissimi, soprattutto nel primo atto, e apre la strada a nuovi percorsi tra cui la grande aria nel terzo atto “Par che mi dica ancora”, con glasharmonika e arpa a sottolineare il deliquio trasognato di Amelia, è la nonna di tutte le scene di pazzia a venire.

Riccardo Frizza coglie perfettamente la natura più intima dell’opera, concentrandosi sul bello e glissando sul meno accattivante, riuscendo in ogni caso a conferire bella uniformità alla narrazione musicale. I tempi sono ben articolati, gli impasti orchestrali tesi ad evidenziare la meravigliosa capacità di strumentatore di Donizetti, anche attraverso un certosino lavoro su microdinamiche e impercettibili scarti di metronomo.
Di grande livello la compagnia di canto.
Jessica Pratt tratteggia un’Elisabetta volitiva ed al contempo spaesata, quasi incapace di mantenere il controllo sugli eventi, incerta fra vendetta e perdono. La voce si espande sicura fino agli estremi acuti, concessi con parsimoniosa accortezza e ove la musica e l’azione lo consentano, ma sono i centri rotondi che questa volta fanno la differenza, consentendo un fraseggio di grande intensità.
A lei risponde Carmela Remigio, meravigliosa Amelia, che, forte di una linea di canto di incredibile morbidezza, trova il giusto colore per ogni frase, rendendola viva nel suo più intimo significato.
Xabier Anduaga sembra essere stato allevato da Erato in persona per quanto canta bene; il suo Leicester è animato da mille sentimenti contrastanti, tutti espressi in un canto sul fiato, che si accende in acuti folgoranti, e con ammirevole senso della frase.
Magnifico il Warney, cattivo per amore non ricambiato ma pur sempre cattivo, di Stefan Pop, che ad ogni ascolto si conferma interprete di assoluto valore, con la sua facilità di squillo posta a servizio di uno scavo costante del personaggio.

Dario Russo dà voce e corpo ad un più che convincente Lambourne e Federica Vitali è una Fanny extralusso.

Il Coro diretto da Fabio Tartari offre una prova positiva.
Un’esecuzione musicale di questo livello avrebbe meritato di essere incorniciata da un allestimento di pari valore; così non è stato.
Maria Pilar Pérez Aspa firma una regia del tutto anodina, tanto da far sembrare i “calligrafisti” della vecchia scuola dei pericolosi iconoclasti.
Sulla scena spoglia, un quadrato inclinato, concepita da Angelo Sala e illuminata da Fiammetta Baldiserri, succede poco e quello che accade è quasi sempre improntato ad una disarmante convenzionalità, tranne quando si tenta un qualche guizzo, che risulta nella maggior parte dei casi bruttino. Le masse si muovono tetragone, i protagonisti quasi sempre al proscenio, tranne Amelia che passa un bel po’ di tempo in un gabbione semovente – simbolo della condizione femminile? – ed Elisabetta che fa il suo ingresso in scena bendata e, sorpresa!, trova ad attenderla un vestito rosa-Barbie del quale si bea come una ragazzina qualunque.
Le uniche due idee buone sono Warney, che si vuole in abiti vescovili – belli i costumi di Ursula Patzak nel loro richiamare quelli che si vedono nei ritratti di Holbein – ma con una croce pettorale che in realtà cela uno stiletto e il Finale, con una grata dorata che si leva a separare Elisabetta, ormai reclusa nel suo ruolo, dai suoi sudditi.

Successo trionfale con ovazioni, meritatissime, per cantanti e direttore, applausi per regista e collaboratori, fiori lanciati in palcoscenico dal loggione e dalla platea, abbraccio bellissimo tra le due protagoniste e i Pratt-boys più scatenati che mai tanto da fare invidia a qualsiasi curva di stadio.

Alessandro Cammarano
(24 novembre 2018)

La locandina

Direttore Riccardo Frizza
Regia Maria Pilar Pérez Aspa
Scene Angelo Sala
Costumi Ursula Patzak
Lighting design Fiammetta Baldiserri
Aiuto regista Federico Bertolani
Assistente ai costumi Nika Campisi
Elisabetta Jessica Pratt
Amelia Carmela Remigio
Leicester Xabier Anduaga
Warney Stefan Pop
Lambourne Dario Russo
Fanny Federica Vitali
Orchestra Donizetti Opera
Coro Donizetti Opera
Maestro del coro Fabio Tartari

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