Bergamo: le follie di Chiara e Serafina

La nona opera del catalogo donizettiano e prima di quello che sarebbe diventato un sodalizio collaudato tra il Bergamasco e Felice Romani sembra essere a tutti gli effetti il frutto di una temporanea follia a due, che però alla fine diventa un fantastico monumento all’anacoluto drammaturgico inteso nella sua più alta accezione.

Molti gli elementi a sfavore di Chiara e Serafina – opera che segna il debutto scaligero di Donizetti – primo tra tutti i soli dodici giorni che separano la consegna del libretto al compositore e il completamento della partitura.

Tuttavia la responsabilità non è solo della musica, perché Romani, che nel medesimo 1822 lavora almeno su altri tre libretti – Atalia per Mayr, Adele ed Emerico e Amleto per Mercadante – ci mette del suo dando vita a qualcosa che si avvicina parecchio al teatro dell’assurdo.

Nella trama, tratta dalla commedia francese La citérne di René Charles Guilberte de Pixérécout, si susseguono una serie di scene variamente giustapposte fra sparizioni, travestimenti, esìli, agnizioni e trame varie, con personaggi che compaiono per poi scomparire lasciando il dramma in sospeso; eppure questo Helzapoppin’ ha un suo fascino perverso.

Il ventiquattrenne Donizetti è qui ancora troppo figlio di Rossini, dal quale attinge “ispirazione” a piene mani senza ancora riuscire a spiccare il volo; anche la forma lascia a desiderare, con il primo atto che si chiude non con uno ma – chissà perché – con due concertati, tanto per dire.

L’opera non cadde subito, reggendo per qualche sera per poi scomparire: sta di fatto che ci vollero undici anni e la Lucrezia Borgia per riaprire a Donizetti le porte del teatro milanese.

La riproposta di Chiara e Serafina al Donizetti Opera – festival che da qualche anno finalmente fa il festival – è in ogni caso risolta da un allestimento assai felice affidato a Gianluca Falaschi, che cura regia, scene e costumi, coadiuvato dal drammaturgo Mattia Palma.

Falaschi fa esattamente quello che si chiede ad un uomo di teatro, ovvero di rendere credibile ciò che credibile non è.

Superata dunque la trama ingarbugliata Falaschi ambienta l’azione in un teatro boulevardier – che però potrebbe essere anche un italianissimo teatrino d’avanspettacolo anni Quaranta del secolo scorso – tra primedonne bizzose, comici scalcinati, pirati di cartapesta, e ballerine fuori tempo scandendo tempi teatrali ben calibrati.

Partricolarmente efficace anche l’impianto scenico, con le Baleari trasferite alle Hawaii, un mare con le onde uscite da un quadro di Hokusai e il coreografo Andrea Pizzalis – sempre presente in scena – ad impersonare tra gli altri anche una barbuta danzatrice di tamurè facendone un capolavoro di comicità elegante; ottimamente risolte le luci di Emanuele Agliati.

Sesto Quatrini guida con mano sicura l’Orchestra GliOriginali – accordata su un diapason a 432 e padrona di un suono fascinoso – attraverso una narrazione musicale saldamente poggiata su un incardinatura ritmica che valorizza quel che di buono c’è nell’impaginato impreziosendo il tutto con efficaci intuizioni dinamiche.

Il cast, composto da solisti dell’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala, si giova della presenza di  Pietro Spagnoli in scena anche in funzione di mentore e che disegna un Don Meschino da manuale sia dal punto di vista della recitazione che da quello strettamente vocale, ponendosi ancora una volta come interprete di primissimo piano nel panorama musicale internazionale, unendo ad una classe indubbia un’encomiabile misura.

Tra i giovani si distinguono le due sorelle perdute e ritrovate, ovvero Greta Doveri, Chiara di timbro vellutato e fraseggio intenso, e Fan Zhou a fare di Serafina un alter-ego ideale per varietà di accenti e interpretazione.

Assai bravo è anche Hyun-Seo Davide Park nei panni Picaro, cosi come Matias Moncada risolve con intelligenza il doppio ruolo di Don Alvaro e Don Fernando.

Marta Gaudenzi è Agnese di buon calibro vocale e Valentina Pluzhnikova disegna una Lisetta di bello spessore.

Meno bene fa Hyun-Seo Davide Park, Don Ramiro poco facile nell’emissione e tirato in acuto.

Buona la prestazione di Andrea Tanzillo come Spalatro e di Giuseppe De Luca nei panni di Gennaro.

Convincente il Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala, preparato da Salvo Sgrò.

Applausi per tutti, con ovazione per Spagnoli e Quatrini.

Alessandro Cammarano
(25 novembre 2022)

La locandina

Direttore Sesto Quatrini
Regia, scene e costumi Gianluca Falaschi
Coreografie Andrea Pizzalis
Lighting design Emanuele Agliati
Drammaturgo Mattia Palma
Personaggi e interpreti:
Don Meschino Pietro Spagnoli
Don Alvaro / Don Fernando Matías Moncada
Serafina Fan Zhou
Chiara Greta Doveri
Don Ramiro Hyun-Seo Davide Park
Picaro  Sung-Hwan Damien Park
Lisetta Valentina Pluzhnikova
Agnese Mara Gaudenzi
Spalatro Andrea Tanzillo
Gennaro Giuseppe De Luca
Orchestra Gli Originali
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del Coro Salvo Sgrò

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