Bologna: Il trionfo del Barbablù

Se c’è qualcosa per cui valeva la pena fare un salto a Bologna, questo era il Castello del Principe Barbablù di Béla Bartók all’Auditorium Manzoni, con l’Orchestra del Comunale di Bologna diretta da Juraj Valčuha, il baritono Károly Szemerédy nel ruolo di Barbablù e il mezzosoprano Atala Schöck come Judith. Delle due recite, 8 o 9 giugno, ho assistito alla seconda.

Intanto, il primo riconoscimento va al Teatro Comunale, che in un momento in cui tutti corrono ai ripari sotto l’egida di repertori più acchiappa pubblico, mantiene caparbiamente il Barbablù di Bartók e vede un Manzoni comunque pienissimo. Il secondo va all’Orchestra del Comunale, che si è districata nella difficilissima partitura con un livello altissimo. E il loro mestiere era ulteriormente complicato in quanto, lo si può immaginare pensando al palco del Manzoni, le forze in campo erano veramente ridotte all’osso nella versione ‘cameristica’ di Eberhard Kloke. ‘Cameristica’ perché comunque è difficile immaginare il Barbablù con i legni a due (tranne i clarinetti), una manciata di archi, una sezione percussioni decimata, una tromba e qualche ottone. Eppure si è fatto e il Comunale suonava come se fossero stati in trecento sul palco. Sarà la compattezza del Manzoni, ma al posto di un’orchestra da camera ci si è trovati di fronte ad una sinfonica in grande spolvero. Quando dirige Valčuha va così ed è facile comprenderne il perché.

Juraj Valčuha non è certo noto per il suo carattere accomodante, ma quando sale sul podio non ce n’è veramente per nessuno. La ricchezza del suo gesto ha una forza comunicativa che porta l’orchestra a realizzare esattamente (o quasi) ciò che il direttore slovacco ha in mente. La cosa più interessante, a mio avviso, è la varietà: per Valčuha niente torna mai uguale, ogni frase, ogni sezione, ogni episodio hanno le loro asperità, i loro rilievi, ma questa ricchezza di spunti non si trasforma mai in una dispersività episodica, perché la lucidissima visione del direttore tiene tutto insieme con controllo e freddezza. Questo non significa che non ci possano essere estasi liriche, momenti di efferata esaltazione, ripiegamenti ponderosi e carnalità vibranti, assolutamente, ma vengono raggiunti da Valčuha con un accumulo di tensione, infine rilasciata nei punti più emotivamente intensi. Non c’è da illudersi, però, anche nei climax il direttore non abbandona mai una forma di lucido controllo e così ci troviamo spesso a contemplare anche i passaggi più barbarici come attraverso un vetro. Sono lì, in tutta la loro violenza, ma noi siamo spettatori, non attori. Penso non servano altre parole per capire come Valčuha abbia affrontato il Castello del Principe Barbablù. La speranza, semmai, è poterlo vedere di nuovo presto su questo repertorio in forma scenica e con l’orchestra a ranghi interi (anche se la riduzione di Kloke è parsa, all’ascolto, molto funzionante anche per l’aggiunta di strumenti non presenti in partitura). Ci sono veramente pochi direttori oggi da cui vorrei sentire con più urgenza un Turn of the screw, un Mandarino meraviglioso, ma anche Quadri da un’esposizione, non a caso parte del programma di qualche mese fa con la Fenice di Venezia.

Tutto questo non sarebbe però stato possibile senza due cantanti palesemente a loro agio nell’opera come Szemerédy e Schöck. A loro agio non solo nella lingua, per evidenti ragioni biografiche, ma anche nel repertorio. Il Barbablù/Kèkszakállù di Szemerédy è rigido e severo, potrebbe affondare di più nelle effusioni e nelle perorazioni che rivolge alla sua Judith, ma riesce a tenere coerente il personaggio, sfoggiando una voce nitida ma mai aspra e dal volume capace di sovrastare l’orchestra che, sì, era a ranghi ridotti, ma si trovava sul palco subito alle loro spalle. Un discorso simile si può fare per Schöck, che ha dato una caratterizzazione intensa ma frivola, con alcune inquietanti fissità che hanno evidenziato quanta Salomé ci sia nel contorto Barbablù di Bartók. Con voce solida e matura, Schöck ha saputo dare enfasi e slanci al suo personaggio. Ci tengo a concludere questa recensione con un’ulteriore osservazione: quanta recitazione si può fare senza scena! I due cantanti non hanno avuto che una gestualità appena accennata, restando fondamentalmente immobili e concentrandosi sulle espressioni del volto; le luci hanno solo sottolineato (uno po’ scattosamente) apertura e conclusione dell’opera; eppure solo dal fraseggio, da ciò che i cantanti mettevano in rilievo dei personaggi, si percepiva con chiarezza la loro lettura. Fatalista e misterioso il Barbablù di Szemerédy, di una nervosa seduzione la Judith di Schöck.

Non è un caso, dunque, che solo le luci di sala abbiano potuto invitare il pubblico ad uscire dalla sala e interrompere gli applausi scroscianti che hanno accolto direttore, cantanti e orchestra. Una vera vittoria per il Teatro Comunale di Bologna.

Alessandro Tommasi
(9 giugno 2021)

La locandina

Direttore Juraj Valčuha
Personaggi e interpreti
Barbablù Károly Szemerédy
Judith Atala Schöck
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna

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