Roma: l’Onegin rarefatto e luminoso secondo Carsen

Torna al Teatro Costanzi l’Evgenij Onegin di Pëtr Il’ič Ciajkovskij, e a Roma si respira la cultura della Russia europea. Diretto da James Conlon, con grande chiarezza, e con la regia epurata di Robert Carsen il capolavoro di Ciajkovski ritorna in scena quasi vent’anni dopo l’ultima rappresentazione con Mirella Freni nel ruolo di Tat’jana.

E alla memoria del grande soprano recentemente scomparsa è dedicata questa produzione, nata in collaborazione con la Canadian Opera Company, che ripropone una delle prime regie di Robert Carsen, andata in scena nel 1997 al Metropolitan di New York.

Allora come oggi trionfa lo stile epurato del regista canadese, rarefatto sino all’astrazione. Ogni scena è pensata per essere a servizio la musica, per esaltare voci e orchestra, e quella linea melodica dalle variazioni infinite, su un tema  che a partire dalle cinque note iniziali si rinnova di continuo, usando varie tonalità,  per scavare nelle emozioni dei personaggi.

Per l’ouverture il sipario si alza su un palcoscenico  vuoto,  occupato solo da una poltrona  sulla quale siede Onegin, il protagonista, l’eroe romantico,  il seduttore incostante, il vile tentatore, destinato anche lui al fallimento come tutti gli altri, perché rifiuta l’amore ingenuo di Tat’jana, uccide quasi per caso in duello l’amico  Lenski, sconvolto dalla gelosia, e ricompare tre anni dopo per rinnamorarsi perdutamente di Tat’jana, la quale, moglie ormai del principe Gremin, resiste all’assedio e lo respinge.

Fin dall’inizio Carsen ricorre a un’estrema economia di mezzi. Lavora per sottrazione, evoca, più che descrivere, svuota anziché riempire per dare vita all’azione scenica, che del resto non esiste in questo dramma dei sentimenti, fondato su un conflitto di circostanze – tant’è che lo stesso Ciajkovskij parlava di “scene liriche” e non di “opera” per questo lavoro composto nel 1877 senza scopi secondari,  nato dall’idea della cantante Lavroskaja  di musicare il romanzo in versi di Puskin, ancorché  “frutto di un invincibile impulso interiore”,  e tutto centrato su sentimenti semplici e ordinari, comuni a tutti gli esseri umani,  senza “principesse egizie, faraoni, o qualche pazzo nubiano”.

Ecco allora che per allestire questo dramma dell’interiorità basta un tavolo, due sedie, un tappeto di foglie e quattro tronchi di betulle a scandire lo spazio scenico. Sullo sfondo, risuona il canto delle due sorelle che sognano l’amore, il coro dei contadini, guidati dal pope che sederà al desco di Larina.

La scelta di Carsen tutta giocata sul vuoto si compensa col pieno del colore, perché il cromatismo col variare dei toni cromatici scandisce il passaggio da una scena all’altra e il crescendo del dramma.  Il giallo della steppa russa, quando i contadini festeggiano la raccolta delle messi, cede all’arancio, poi si passa al blu notte per mettere in scena l’ insonnia di Tat’jana, alle prese con la lettera  a Onegin. Venti minuti di tempo musicale reale, scanditi alla lettera sui versi di Puskin, che tutte le ragazze russe conoscono a memoria, (Ya k vam pishu, – chevo zhe bole?/Shto ya mogu yeshcho skazat? Vi scrivo, che altro più? Cosa posso dire ancora?). Ciakovski riprende il tema ricorrente, usando la tonalità del re bemolle maggiore per esprimere le speranze e il timore di un’ingenua ragazza di campagna, che vive di sogni e di romanzi e scopre il suo ideale in quell’ospite inatteso, amico del vicino di casa.

Maya Bayankina, la Tat’jana  ideale, la Tat’jana di Valery Gergiev, al suo debutto romano, canta alla perfezione, conquistando  applausi a scena aperta

Il blu elettrico sfuma poi nei toni dell’indaco, del bianco e poi di nuovo al giallo e dal giallo al grigio, quando Tat’jana, vestita di grigio come una suora di clausura, subisce l’umiliazione di Onegin che le rimprovera la  sua ingenuità, rifiuta il suo amore, e le dichiara la sua morale plumbea.

Il baritono viennese Markus Werba, al suo debutto nel ruolo di Onegin, ha un buon controllo della tecnica e un’eccellente recitazione.

Per la scena del ballo si torna all’arancio: un rettangolo di sedie l’una diversa dall’altra che incornicia la variopinta folla danzante dei pomeščki, ospiti di Larina, i piccoli proprietari terrieri, coi loro modi un po’ gretti e gli abiti di eleganza.

Anche qui Carsen lavora sul segno meno, ma in compenso aggiunge un sovrappiù di costumi sontuosi, per esaltare il lavoro di scavo della partitura, che esaspera la gelosia di Lenski verso Ol’ga che civetta con Onegin, tra il cicaleccio delle signore in festa e il turbinio di valzer, polacche e mazurche.

La scena del duello sembra un sogno, avvolta in un velo con quattro ombre che si aggirano a passi lenti come fantasmi.

L’aria di Lenski, uno dei pezzi più struggenti della lirica dell’Ottocento (Kuda, kuda, kuda vi udalilis/ vesni moyei zlatiye dni? Dove, dove, dove siete voltati, anni d’oro della mia giovinezza?) riprende il tema della scena della lettera in un’altra tonalità, usando cioè il mi minore, che per Ciakovski è la tonalità del fato, del destino ineluttabile, come dimostra la Quinta sinfonia. E Il tenore italo-albanese Saimir Pirgu, scoperto da Claudio Abbado e già allievo di Vito Maria Brunetti al conservatorio Monteverdi di Bolzano, ne offre un’interpretazione tanto intensa quanto sofferta, assolutamente magistrale.

A drammatizzare lo scherzo del destino che travolge i due amici, c’è un’altra trovata registica geniale, la vestizione di Onegin a scena aperta, che indossa gli abiti di gala, mentre il cadavere di Lenski viene portato via dagli stessi camerieri in livrea, che riappaiono per il ballo del principe Gremin. Sono passati tre anni, ma la regia sembra fare un salto di vari decenni.

Dai tempi dei decabristi, si arriva al vaudeville, coi giri di valzer acrobatici e damigelle a gambe all’aria. L’aria di Gremin che canta il suo amore per Tat’jana è un altro dei grandi momenti, interpretato alla perfezione dal basso John Relyea.

È così che il dramma dei sentimenti corre verso il suo epilogo con la sequenza finale di Tat’jana che aspetta Onegin, Onegin che si dichiara, lei che sembra cedere ma alla fine resiste, fedele al suo dovere di moglie, e l’abbandona.

Marina Valensise
(18 febbraio 2020)

La locandina

Direttore James Conlon
Regia Robert Carsen
Regista collaboratore Peter McClintock
Scene e costumi Michael Levine
Luci Jean Kalman
Coreografia Serge Bennathan
Personaggi e interpreti:
Larina Irida Dragoti
Tat’jana Maria Bayankina
Ol’ga Yulia Matochkina
Filipp’evna Anna Viktorova
Evgenij Onegin Markus Werba
Vladimir Lenskij Saimir Pirgu
Principe Gremin John Relyea
Zareckij Andrii Ganchuk
Triquet Andrea Giovannini
Un capitano Arturo Espinosa
Orchestra, coro e corpo di ballo dell’Opera di Roma
Maestro del Coro Roberto Gabbiani

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