Venezia: un dittico di coppia al Teatro La Fenice

L’unico lavoro operistico di Béla Bartók, Il castello del principe Barbablù, è un singolare punto d’incrocio fra il simbolismo in voga in Europa nei primi anni del XX secolo e la prepotente tensione drammatica dell’espressionismo, che andava affermandosi a cavallo del passaggio del primo decennio. Composto nel 1911 e rimasto non rappresentato fino al 1918, questo atto unico su testo di Béla Balázs prende le distanze non solo e non tanto dallo spunto letterario originale, la celebre favola di Perrault, ma anche e soprattutto dal precedente più immediato, Ariane et Barbe-bleue di Dukas su libretto di Maurice Maeterlinck (1907), lo stesso autore del Pelléas debussiano.

Balázs costruisce infatti un meccanismo opprimente e inesorabile nel quale il confine fra la realtà e le proiezioni mentali dei due protagonisti è praticamente annullato: un percorso claustrofobico che del plot antico conserva pochissimo, per sfociare in un finale a sorpresa. Dopo un angoscioso itinerario fra l’onirico e il vissuto, i sensi di colpa e l’anelito alla felicità, l’ultima moglie di Barbablù, Judit, scopre infatti che le tre precedenti mogli del principe sono recluse dietro la settima e ultima parta dell’opprimente castello in cui vive. Il suo destino sarà quello di essere serrata per sempre, anche lei, insieme a loro.

La magistrale partitura bartokiana aderisce all’invenzione letteraria e la esalta con un linguaggio di formidabile densità drammaturgica e di lancinante bellezza. Ne sono elementi sostanziali le strutture armoniche multiformi e anticonvenzionali, spesso riferite alle tradizioni etniche ungheresi, la ricchezza strumentale in orchestra, una scrittura vocale franta, spesso incline al declamato, mai propensa a una vera espansione melodica. Straordinaria l’adesione di questa musica ai climi psicologici che si susseguono nell’opera, corrispondenti alle aperture delle sette misteriose porte, altrettante prospettive sulle insondabili oscurità psichiche del personaggio del titolo.

L’atto unico di Bartók è tornato in scena alla Fenice, a 25 anni dall’ultima volta, in un allestimento firmato per la regia da Fabio Ceresa, coadiuvato da Massimo Cecchetto per le scene, Giuseppe Palella per i costumi, Fabio Barettin per le luci e Mattia Agatiello per i movimenti coreografici. Spettacolo di notevole ma forse un po’ fuorviante suggestione, che parte da un’intuizione scenografica di grande efficacia per delineare un’interpretazione psicologica, anzi, psicanalitica, sicuramente originale ma altrettanto certamente singolare.

Il punto di partenza, quanto mai appropriato, è la sottolineatura di quanto il castello di Barbablù sia una manifestazione della sua sofferta interiorità psichica. Niente architetture in scena, dunque, ma una grande testa scultorea del protagonista stesso, che schiudendosi nel mezzo di volta in volta rivela gli scenari legati all’apertura delle sette porte. I “doppi” del principe, ci si trovi nella sala delle torture, nell’armeria, nel giardino o nel suo regno, sono una presenza costante quanto inquietante, così come il gioco di specchi che induce prospettive fallaci o sognate. Progressivamente sempre più inquietante diventa anche, con il procedere dello sprofondo nell’abisso mentale, la figura della stessa Judit. Non solo e non tanto moglie coraggiosa e piena d’amore, ma in qualche modo “elemento catalizzatore” di una presa di consapevolezza definitiva da parte del protagonista: i baci della donna alle varie proiezioni psichiche di Barbablù hanno infatti un effetto mortifero, inesorabile. E alla fine sarà chiaro che spetta a lei accompagnare il principe nella notte eterna, piuttosto che esservi confinata per sempre. Un capovolgimento drammatico radicale.

In tutto questo, l’opulenza scenografica sicuramente d’impatto che circola in larga parte dello spettacolo trasforma in decorazione sfarzosa e in perfetto stile inizio-secolo (decisivi i costumi) il simbolismo dell’opera, del resto per molti aspetti “inafferrabile” con i suoi ricorsi strutturali e numerologici e le sue allusioni cromatiche, psichiche o filosofiche. Ma non è un caso che i momenti più stringenti sul piano drammatico finiscano per essere quelli di passaggio, quando la grande testa scultorea si richiude e nella semi-oscurità il confronto fra Barbablù e Judit esprime una tensione quasi insopportabile nella sua “assolutezza”.

Da protagonista assoluta, che rovescia il rapporto di forze fra i due personaggi soli in scena, emerge nello spettacolo di Ceresa la Judit di Aušrine Stundyte: voce di formidabile tensione drammatica, la sua, sempre condotta nel massimo controllo e capace di sottigliezze che fondono come meglio non si potrebbe linea di canto e dramma. Un Barbablù con tratti di singolare rassegnazione è il baritono Gidon Saks, che percorre con sofferta dignità il suo personale calvario psichico fino all’annullamento conclusivo. Dal podio coordina con efficacia il tremendo testa a testa Diego Matheuz, che ottiene dall’orchestra della Fenice lo spessore e il colore necessari a rendere giusta ragione della forza dirompente di questa musica. La sua lettura è ben misurata ma non rattenuta, quando serve selvaggia nelle dinamiche, forse meno convincente laddove le linee si assottigliano e dovrebbero prevalere notazioni più “floreali”.

Bene anche la voce recitante di Karl-Heinz Macek, che all’inizio, nell’unico intervento in italiano dell’opera (proposta nell’ungherese originale), mette in guardia il pubblico – non c’è altra espressione possibile – su ciò a cui sta per assistere. O crede di assistere…

Come apertura di serata, prima che arrivi il momento di Bartók, lo spettacolo della Fenice – a delineare un dittico sicuramente inedito – propone quella sorta di sketch operistico in dieci minuti che è A hand of bridge di Samuel Barber su libretto di Giancarlo Menotti, composizione portata al debutto al festival di Spoleto nel 1959. Elegante fino a un sospetto di dandismo, condotta sul filo di un linguaggio musicale eterogeneo, che trascorre dallo swing alla turgidità delle linee vocali, la scena serve per mettere a fuoco, durante una partita a carte, i pensieri reconditi delle due coppie sedute al tavolo da gioco. Le psicologie sono sbozzate con efficacia: il marito fedifrago, la di lui moglie tutta presa dalla vanità di un cappellino da tempo desiderato, l’altro uomo immerso in desideri inconfessabili di ricchezza e sensualità, la consorte che depreca di non avere mai imparato ad amare la madre, ora ormai sul punto di andarsene. In fondo, ci sarebbe materiale per un’opera vera, ma tutto rimane nei confini della nonchalance elegante, che sottolinea il formidabile mestiere di Barber e l’abilità anche come drammaturgo di Menotti. Formato dagli stessi Saks e Stundyte successivamente impegnati in Bartók e da Christopher Lemmings e Manuela Custer, il quartetto di questo frammento di commedia sofisticata hollywoodiana se la cava come meglio non si potrebbe fra distacco snobistico e pertinenza vocale. Anche per loro, consensi molto vivi.

Cesare Galla
(17 gennaio 2020)

La locandina

Direttore Diego Matheuz
Regia Fabio Ceresa
Movimenti coreografici Mattia Agatiello
Scene Massimo Checchetto
Costumi Giuseppe Palella
Luci Fabio Barettin
A Hand of Bridge
David Gidon Saks
Geraldine Ausrine Stundyte
Bill Christopher Lemmings
Sally Manuela Custer
Il castello del principe Barbablù
Judit Ausrine Stundyte
Il principe Barbablù Gidon Saks
Il bardo Karl-Heinz Macek
Le mogli di Barbablù Pia Mazza, Francesca Penzo, Noemi Bresciani
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti

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