Vicenza: Gardiner essenziale e unfair

Un itinerario nella musica sacra italiana fra la metà del Seicento e l’inizio del Settecento, con una sorta di doppia introduzione – coerente dal punto di vista cronologico ma anche contenutistico – affidata a Henry Purcell, prima con un Mottetto in latino (Jehovah, quam multi sunt hostes) e nella seconda parte con un breve Anthem in inglese (Hear my prayer, O Lord). La prima volta a Vicenza e al teatro Olimpico di John Eliot Gardiner, del Monteverdi Choir e degli English Baroque Soloists, presentava una densità e profondità musicale degna degli interpreti e del luogo dove si è svolto il concerto, chiarendo come questo repertorio sia ideale per il più antico teatro coperto del mondo, anche dal punto di vista di un’acustica troppo frequentemente “strattonata” per adattarsi a proposte di ogni genere.

Uno dei motivi di maggiore interesse del programma consisteva nella sua multiformità stilistica, che poi corrispondeva alle diversità di genere. Si è infatti passati dalla sintetica, elegante, a tratti struggente Messa a quattro voci da cappella di Claudio Monteverdi, pubblicata nel 1640 nella raccolta intitolata Selva morale e spirituale, alla logica “narrativa” di uno dei più famosi Oratori di Giacomo Carissimi, il compositore secentesco di Marino, il cui Jephte fu composto secondo gli storici della musica intorno al 1650 e ha rappresentato fin da subito un modello, ovvero, si potrebbe dire, un archetipo.

La biblica vicenda del condottiero che per sconfiggere gli Ammoniti aveva fatto voto a Geova di offrire in sacrificio la prima persona che gli sarebbe venuta incontro dopo la vittoria, drammaticamente trovandosi obbligato all’olocausto della sua unica figlia, è l’occasione di una straordinaria articolazione espressiva sia nelle parti corali che in quelle a voci soliste, in particolare nel duetto fra padre e figlia e nel lamento di quest’ultima per il suo triste destino. Di forte impronta melodrammatica il contrasto di “affetti” nella fanciulla fra il momento di allegria per l’incontro con il padre-condottiero vittorioso e la scoperta della necessità di sottoporsi al sacrificio per non indurlo a tradire il suo sacro impegno. La composizione si chiude con un lungo “pianto”, sia da parte della figlia di Jephte che da parte del coro che commenta: il tradizionale Lamento rinascimentale-barocco trova una straordinaria, quasi teatrale concretezza di accenti.

In chiusura di serata, spazio allo sbalorditivo Stabat Mater a dieci voci reali di Domenico Scarlatti, pagina che potrebbe risalire al 1715 ed essere stata composta per la Cappella Giulia del Vaticano. A differenza di quel che accade in molte (e molto più note) partiture su questa celebre Sequenza medievale, l’impianto compositivo è qui singolarmente unitario, solo raramente suddiviso nel procedere delle terzine dei versi. Il risultato, anche in questo caso, è una sorta di teatrale concentrazione della narrazione musicale, che procede lungo il testo “pescando” in esso i momenti fondamentali, realizzandone una scansione polifonica ardua e affascinante, non aliena da alcune allusioni alla nascente pratica della coloratura belcantistica, che sembra scaturire dagli antichi melismi per assumere una dimensione autonoma e una ragione musicale peculiare rispetto al significato della parola intonata.

Fin dall’iniziale Mottetto di Purcell, i venti cantori del Monteverdi Choir hanno chiarito le coordinate di un fare musica che si è affermato a livello internazionale come un punto di riferimento imprescindibile. Si parla della chiarezza del colore, dell’eleganza, della duttile misura vocale che non rinuncia mai a una intima evidenza espressiva e che sembra trovare le ragioni più musicali nell’ambito della corda patetica. Si aggiunga l’attenzione alla parola latina e si avrà il quadro di un’esecuzione che è parsa attenta più che a un arido rigore filologico fine a se stesso, a quel senso di consapevolezza storica che è l’ormai imprescindibile orizzonte del fare musica antica. Così, il Monteverdi della Messa a quattro voci è stato distillato con la consapevolezza che l’autore dell’Orfeo, cui restavano pochi anni da vivere, aveva trovato a Venezia nella dimensione del teatro per musica una coerenza e una superiore chiarezza di stile che poteva ben riflettersi anche nelle musiche per la Cappella di San Marco, risolte con tenera, suadente partecipazione soggettiva.

Non analoga morbidezza e suggestività di approccio i complessi inglesi hanno messo in evidenza nell’Oratorio di Carissimi, per una certa quale rigidità di enunciazione, ma poi lo Stabat Mater di Domenico Scarlatti ha ottenuto la quadratura del cerchio: stile antico e virtuosismo polifonico sintetizzati con veemenza a tratti perfino irruente, ma appunto teatrale; sontuosa articolazione del fraseggio all’interno dell’arduo tessuto contrappuntistico, forza espressiva mai sacrificata al rigore fine a se stesso.

Fondamentale, in questo sofisticato itinerario musicale, l’apporto degli English Baroque Soloists, esemplari nel dare sostanza non di maniera alle metamorfosi del basso continuo attraverso i diversi autori, dalla eccellente viola da gamba sola di Kinga Gáborjáni per Monteverdi alle intriganti diversificazioni timbriche sia in Carissimi che in Scarlatti, garantite dalla sorvegliata precisione di Valerie Botwright al contrabbasso, Gwyneth Wentink all’arpa, Evangelina Mascardi al chitarrone e James Johnstone all’organo positivo e al cembalo.

Gardiner ha guidato l’insieme con gesto essenziale e di fondamentale accuratezza, dirigendo a memoria Monteverdi e lasciando briglie sciolte in Scarlatti, risolto con vivida immediatezza aliena da ogni rigidità stilistica. Il teatro Olimpico era al gran completo, affollato di un pubblico di conoscitori e di estimatori del musicista inglese, fin dall’inizio accolto con una vera e propria ovazione. La cosa non ha colpito più di tanto John Eliot Gardiner, che alla fine non solo non ha concesso alcun fuori programma, ma è sembrato tagliare corto, accompagnando fuori cantori e strumentisti dopo pochi minuti e tornando poi da solo alcune altre volte, non senza qualche gesto di vaga insofferenza, a raccogliere gli ultimi entusiastici applausi. Come si direbbe in Inghilterra, non particolarmente “fair”…

Cesare Galla
(1º novembre 2022)

La locandina

Direttore Sir John Eliot Gardiner
Monteverdi Choir
English Baroque Soloists
Programma:
Henry Purcell
Jehova
Claudio Monteverdi
Messa a quattro voci da cappella
Giacomo Carissimi
Jephte
Henry Purcell
Hear my Prayer
Domenico Scarlatti
Stabat Mater

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