Vicenza: il Jazz sul palco dell’Olimpico con il trio Calibrated Thickness

Alcuni anni fa, il festival Vicenza Jazz si avventurò “Sulle rotte di Marco Polo”, e lui c’era. Non può essere un caso se quest’anno, in cui tutti, musicisti e appassionati, sono esortati a spingersi “Oltre le colonne d’Ercole, alla ricerca di una nuova luna” lui ci sia di nuovo. Vero è che Uri Caine è fra i più assidui frequentatori della rassegna diretta da Riccardo Brazzale, dove a partire dai primi anni Duemila si è proposto in molti modi, in un arco che ha da un lato la performance in solitario, dall’altro il dialogo con l’orchestra e in mezzo molte possibili combinazioni per numero di esecutori e soluzioni timbriche di accompagnamento al suo pianoforte. Ma appare anche più significativo, allora, che per testimoniare il suo personalissimo modo di cercare nuovi corpi celesti questa volta il musicista di Filadelfia si sia presentato con la più classica delle formazioni, il piano trio, che nel jazz, come ognuno sa, ha la più frequentata combinazione strumentale nella presenza di contrabbasso e batteria a fianco della tastiera. E con la quale mai Caine si era presentato a Vicenza, se non andiamo errati. In fondo, una scelta caratteristica per questo musicista, incline come pochi ad andare oltre qualsiasi “colonna d’Ercole” dello stile, della forma e soprattutto del linguaggio.

Altre volte, come appunto nel 2012 (ma era accaduto in vari modi anche prima), il pianista compositore si era proposto a Vicenza come sofisticato intermediario fra le ragioni della musica afroamericana e la storia – meglio, l’esperienza – di quella cosiddetta colta. Una scelta che discendeva dalla sua incessante propensione a compiere straordinari viaggi (ecco la parola magica) dentro la scrittura variata, il sinfonismo del Settecento o dell’epoca post-romantica, perfino l’opera, se è vero che quando fu chiamato a dirigere la Biennale Musica (correva l’anno 2003) diede vita a una sua personale rivisitazione dell’Otello verdiano.

Questa volta, il confronto è stato meno diretto, ma il metodo non è apparso mutato. Difficile che al teatro Olimpico qualcuno abbia sentito risuonare qualcosa che sapeva di Händel o di Mozart, di Mahler o di Wagner (per citare solo alcuni dei suoi riferimenti classici). Possibile che qualcuno abbia invece creduto di identificare un che dei Nirvana (come ci ha raccontato un esperto appassionato all’uscita). Sicuro che tutti siano stati coinvolti in un percorso lungo 75 tiratissimi minuti durante i quali Caine non si è mai adagiato sui cliché. Percorso affascinante come pochi, perché è apparso quasi subito chiaro che il pianista-compositore non stava nascondendo nulla dei suoi processi creativi e immaginativi, offrendo continuamente prospettive diverse di ascolto rispetto ai paesaggi sonori che andava creando, in un continuo mutare del clima musicale. Perché non facevi in tempo a prendere le misure al suo pianismo poliritmico e poliarmonico, magnificamente assecondato e sottolineato dai suoi compagni di avventura, che subito scoprivi orizzonti di più rassicurante familiarità, fra blues, swing, perfino allusioni rag. Una sorta di bipolarità avanguardia-tradizione, dominata da un lato da un’asprezza espressiva perfino inquietante, dall’altro da una dolcezza melodica che poteva apparire come un’oasi in mezzo a terre aride e selvagge.

E se il grosso del materiale derivava da composizioni originali, antiche e più recenti, quasi tutte sue, da Manhattan a Bleeding Heart, da Golem a He said She, poi ci si è anche ritrovati dentro al venerabile Round Midnight di Thelonius Monk, ma reinterpretato in modo da posporre il fulcro melodico per farlo apparire solo alla fine, oppure ancora We See dello stesso Monk, o uno standard come Green Dolphin Street. Ma sempre con un approccio che sembra giusto definire creativo in senso lato, più che improvvisativo. E quindi con una libertà inventiva stupefacente, nella quale la complessità dei campi armonici disegnati dalla tastiera si rifletteva in incessante riverbero coloristico e scarto ritmico, mentre qualcosa di complementare accadeva grazie alla straordinaria sensibilità del percussionista Clarence Penn, che nell’accettare la sfida ritmica la portava spesso e volentieri sul piano della tinta, inventandosi sfumature di affascinante varietà ed eleganza. Decisivo, anche se talvolta mezzo passo indietro quanto a “presenza”, anche l’approccio di Mark Elias al contrabbasso (suo peraltro uno dei pezzi iniziali, The Armonic Line), attraverso la ricerca di una timbrica capace di oltrepassare il pulsare ritmico per attraversare tutta la tessitura dello strumento, dal grave all’acuto, con tecnica multipla, dal pizzicato all’uso quasi classico dell’archetto.

Pubblico forse anche leggermente stupito all’inizio, ma progressivamente sempre più coinvolto e alla fine vinto in egual misura dalla sapienza musicale dei tre e dalla loro sincerità artistica, vissuta senza infingimenti e senza la minima ombra di concessioni al risaputo, ma con affascinante qualità comunicativa. Quindi, alla fine, applausi entusiastici fino a un doppio bis della stessa temperatura emotiva e forza creativa di tutta la serata.

Cesare Galla
(12 maggio 2019)

La locandina

Calibrated Thickness
Pianoforte Uri Caine
Basso Mark Helias
Batteria Clarence Penn

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